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Racconti incrociati da una storia collettiva. Kilowatt legge Rodari

di Altre Velocità

Gianni Rodari, il favolista. Gianni Rodari, il poeta. Gianni Rodari, l’inventore di storie che attraverso la parola ci ha mostrato l’immagine della fantasia. Ci ha parlato di libertà e raccontato le assurde imprese di Cipollino, ci ha descritto un mondo di bugiardi e dato forza alla voce di Gelsomino; ci ha raccontato di Spicciola e di Francesco, della zia Ada e di suor Zucchina, del buon Gilberto e di Alice, che, chissà, adesso, dove si è cacciata…
Lo scrittore ha dato corpo ai personaggi inventati di una storia che fa tutt’ora parte di ognuno di noi. Lo hanno dimostrato i numerosi eventi, le numerose mostre e le svariate iniziative, organizzate già a partire dall’anno scorso, in prospettiva dei festeggiamenti per i cento anni della sua nascita.
Gianni Rodari è uno che sbircia, che guarda il mondo dei bambini, strizza l’occhio ai ragazzi più grandi e scrive favole che parlano di vita.
Ma chi era Gianni Rodari, il bambino?
Io me lo immagino disteso in cortile con un libro in mano, disteso tra i ballatoi e le scale dei palazzi, disteso al primo piano e in pace, tale che potresti disegnarlo dentro a un quadrato, come quelli di Munari, che molti dei suoi libri ha illustrato.
Era il suo primo libro, racconta in un’intervista. Aveva otto anni, quando prendeva le casse vuote della pasta per farci un rifugio. Suo padre faceva il fornaio e lui con un panino ripieno di cioccolato, leggeva e piangeva, mangiava e leggeva. «Molto bello», dice…
Erano la zia, e la nonna, quando andavano a trovarla, a raccontare le storie. Fino a quando si trasferirono in campagna e lì si usava riunirsi tutti insieme la sera, si lavorava e si recitavano favole. Ricorda una donna che cuciva grandi lenzuola e raccontava storie di paure.
Forse, con quello stesso spirito hanno preso forma le sue Favole al telefono, insieme alla vicenda del ragionier Bianchi, che lontano da casa, alle nove in punto di ogni sera, chiamava Varese per raccontare una storia alla sua bambina. Erano brevi, d’altronde, le pagava di tasca sua…
E forse per questa stessa ragione, Kilowatt festival, la residenza creativa, promossa e realizzata dalla compagnia Capotrave, decide di raccontarci una storia. Lo fa ogni sera alle sette e dura per tre minuti.
Nel presentare il progetto, ideato nel 2003, avevano parlato di quanto fosse fondamentale pensare al teatro tra la gente, come poter creare qualcosa che fosse pensato per le persone, per il territorio, in cui il pubblico potesse partecipare. Oggi, in un momento in cui questo risulta molto difficile, in un contesto in cui l’arte, la cultura, la danza e il teatro, si trovano forzatamente distanti, irrimediabilmente in silenzio, dicono: “Oltre l’isolamento, una storia di rinascita collettiva”, e propongono, attraverso i loro canali social, un reading espanso che, iniziato l’11 marzo, si concluderà la prima settimana di aprile.


Scelgono una storia che parli di rinascita, di solitudine e di coraggio, è una storia che è ambientata su un’isola, in mezzo al lago d’Orta, è la storia del barone Lamberto, che prende la voce dell’attore e drammaturgo Oscar De Summa, dell’operatrice olistica Gilda Noa Foni, della ristoratrice Alessia Uccellini, della coreografa Michela Lucenti, del direttore artistico Gilberto Santini… ed è la favola di Gianni Rodari, C’era due volte il barone Lamberto, ma Kilowatt non ce la racconta due volte, non ce la racconta nemmeno tre. Ci offre un piccolo “pezzo” ogni giorno per oltre venti giorni, attraverso la lettura di cinquanta narratori diversi.
Ma torniamo al racconto. Dicevamo… è una storia ambienta su un’isola, l’isola di San Giulio. C’è un lago, ci sono le montagne e, proprio lì, circondata da tutto quel paesaggio, si trovava la villa, l’abitazione del barone Lamberto. È un’isola che «sembra fatta tutta a mano, come un gioco di costruzioni. Metro per metro, secolo dopo secolo dandosi il cambio, uomini e altri uomini (…) Non si vedono rocce ma pietre, mattoni, vetrate, colonne, tetti, un insieme compatto come i pezzi di un rompicapo»
Fino a quel momento in cui accade qualcosa, e la cosa è seria, sembra che nessuno abbia più voglia di replicare.
«I curiosi che continuano a guardare l’isola, hanno l’impressione che sia diventata più nera e compatta (…) come se avesse troncato i contatti con la terraferma».
Un assedio. Le luci si sono spente… Un isolamento, che forse possiamo capire davvero fino in fondo, una solitudine dove forse vale la pena seguire l’eco degli ignari dipendenti, che senza saperne il motivo, sussurrano un nome, il nome «Lamberto, Lamberto, Lamberto… Lamberto…». «Il nome detto. Il nome vive», dice il barone.
E io vi invito a stringervi un po’, a farvi spazio in quel fortino immaginario, che Gianni Rodari ci ha suggerito, in quel quadrato che messo il primo piede, sembra infinito.
Vi consiglio di seguire l’esempio delle centraliniste, che per le favole del ragionier Bianchi, alla sera, ogni volta che arrivava una chiamata, mettevano l’attesa pur di non perdere le storie inventate per la sua bambina.
Vi consiglio di riunirvi la sera per prendere parte, in qualche modo, ad una lettura espansa, di una narrazione collettiva, come si faceva una volta.
E nonostante sappia, che non sia più il tempo dei gettoni, degli spiccioli da cercare, non sia più la storia delle lunghe code alle cabine telefoniche, del raccoglimento dentro un fienile, dei passatempi pensati con poco… mi chiedo se abbiamo scoperto, allo stesso modo, ancora qualcosa da raccontare.

Marta Pezzucchi

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