A marzo 2020 su Altre Velocità definivamo il “teatro ecologista” come quel teatro in grado di immaginare e costruire utopie per proiettare l’umanità ad affrontare il collasso in corso e a costruire il “mondo del dopo”, e auspicavamo che l’emergenza sanitaria – allora ai suoi inizi agitati e confusi – e la chiusura dei teatri portassero gli artisti a preoccuparsi di essere il contagio, anziché subirlo. Oggi, a distanza di un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, il settore è martoriato da produzioni rinviate, repliche annullate e ristori inadeguati; eppure nemmeno le conseguenze del Covid-19, che hanno estremizzato le follie e i controsensi del capitalismo (a livello generale) e del sistema Fus (nel particolare), sono bastate per innescare le concrete e necessarie pretese di arrestare i meccanismi di iperproduttività e l’eccessivo consumo di risorse – anzi pare proprio che la maggior parte dei teatri, alla pari di tutti gli altri comparti economici, abbia affrontato la riapertura tornando alla stessa frenetica e spensierata routine di prima, quasi come se nulla fosse accaduto. Eppure alcuni dei primi, fortunati artisti che hanno potuto debuttare nelle settimane di riapertura dei teatri sembrano avere colto la prospettiva ecologista con cui le arti sceniche dovrebbero a nostro parere ripartire come approccio pratico e politico, ovvero utilizzando i loro linguaggi performativi non per lanciare espliciti e inutili messaggi apocalittici bensì per restare a contatto con il problema come forma di resistenza e di urgenza in questi tempi di crisi. In particolare due spettacoli freschi di debutto, Earthbound di Marta Cuscunà (visto il 27 maggio al Teatro Storchi di Modena per la stagione di Emilia Romagna Teatro) e Atlante linguistico della Pangea di Sotterraneo (visto il 10 giugno al Teatro delle Muse di Ancona per il Festival InTeatro), in modo diverso tra loro sono esempi di quel teatro ecologista che Carl Lavery definisce come l’arte scenica che «ha la capacità di alterare il nostro modo di esistere nel mondo mettendo in crisi le convenzioni del pensiero e della percezione antropocentrici» (Performance and ecology: what can theatre do?, Routledge 2018), e incarnano la tensione a «fare disordine», a «essere davvero nel presente» e a «recuperare il pluriverso della Terra», come invita a fare Donna Haraway in Chthulucene (Nero Edizioni 2019).
Proprio Chthulucene è l’ispirazione diretta di Earthbound: lo spettacolo di Cuscunà (scene e progettazione animatronica Paola Villani, assistente alla regia Marco Rogante) coglie l’invito del saggio eco-femminista a raccontare storie in questo periodo di urgenza e di catastrofi per uscire dallo stato di impotenza e di passività in cui rischiamo di cadere davanti a questioni ed entità diffuse nello spazio e nel tempo (il filosofo ecologista Timothy Morton le definisce “iperoggetti”) come il collasso ambientale. Nello specifico, Cuscunà trae spunto dalla storia delle Camille immaginata nell’ultimo capitolo di Chthulucene, ovvero di una comunità umana che nel 2025 migra in una regione degli Stati Uniti devastata dalle estrazioni di carbone fossile e giunge alla consapevolezza che per risanare il pianeta occorre anche rallentare la velocità con cui la nostra specie si riproduce, al fine di evitare l’eccessivo consumo delle risorse non infinite della Terra. Tra le Camille «i nuovi nati sono esseri rari e preziosi» e devono avere almeno tre genitori ed essere frutto di una scelta collettiva di tutta la comunità; inoltre, grazie alla tecnologia il loro genere è indefinito e il loro patrimonio genetico viene ibridato con quello delle specie in via di estinzione. La fabula raccontata da Haraway arriva fino al 2425, quando le Camille sono arrivate alla quinta generazione, riuscendo a ridurre la popolazione umana da otto a tre miliardi di individui e a riprodursi in simbiosi con quasi tutte le specie nel frattempo estintesi, conservando così il loro patrimonio genetico.
Earthbound porta in scena la teoria e la finzione harawayane con una scenografia di grande impatto estetico: sul palco c’è un’enorme sfera rotante che ospita su un lato una figura umana che resterà sempre immobile e rannicchiata in una sorta di letargo (è la Camilla 1, realizzata con le sembianze dell’attrice Giusi Merli) e sull’altro lato tre perturbanti animali antropomorfi cui Cuscunà dà corpo e voce con la notevole abilità manuale e timbrica che abbiamo già apprezzato in Sorry, boys e Il canto della caduta – ma in questo nuovo lavoro, al contrario dei due precedenti, l’attrice non resta sempre dietro le sue macchine animatroniche, bensì si muove anche in scena su un monoruota elettrico a impersonare un robot di nome Gaia comandato da un’intelligenza artificiale di cui sentiamo la voce fuori campo. Ci troviamo in un futuro indefinito, la temperatura media è di 55 gradi e il robot è programmato per assistere la comunità delle Camille nella loro missione, aiutandole a riprodursi e prendendosi cura di un piccolo albero tra i pochi sopravvissuti alla catastrofe ambientale provocata dall’uomo. A un certo punto, le tre creature antropomorfe percepiscono la presenza di alcuni esseri umani: siamo noi seduti in platea, e diventiamo oggetto di attenzione da parte delle Camille che ci compatiscono in quanto esseri dal pensiero primitivo, che «credono ancora nell’esistenza dell’individuo». Nel giro di poche battute intuiamo di trovarci davanti a simbionti dall’intelligenza superiore, che hanno instaurato una comunità basata su legami orizzontali e priva di gerarchie, in una sorta di “mondo del dopo” nel quale si evita qualsiasi eredità comportamentale umana e si cerca di rimediare ai disastri ecologici provocati dalla nostra generazione – il riscaldamento globale, l’estinzione delle specie, l’antropocentrismo.
Quella che a un livello superficiale potrebbe sembrare una banale storia di fantascienza post-apocalittica e/o una semplice suggestione artistica indotta da un saggio seducente come Chthulucene, in realtà è un’opera raffinata nel cogliere l’invito harawayano a “con-pensare” e “mondeggiare” per generare pensieri multispecie, tentacolari e simpoietici al fine di diffondere una maggiore consapevolezza ecologista: Earthbound sfiora infatti delle questioni profonde su cui arrovellarsi una volta usciti dal teatro, in particolare quelle dell’intelligenza artificiale (la voce fuori campo, mostruosa e insensibile, che decide cosa le Camille possono o non possono fare, genera inquietudini sul potere della macchina che supera il volere dell’uomo stesso che l’ha programmata), del femminismo (nei dialoghi articolati dalle voci di Cuscunà il modo di esprimersi delle Camille è paritario fino all’estremo, tanto che per esempio una redarguisce l’altra che ha detto “mettere il carro davanti ai buoi” poiché sarebbe una locuzione discriminatoria, prevaricatrice e pertanto antropocentrica: questo genere di battute, ripetute più volte nel corso di Earthbound, hanno l’effetto di rendere paradossali le rivendicazioni di un certo femminismo radicale a proposito del linguaggio iper-ugualitario) e della procreazione (in Earthbound le Camille decidono di riprodursi dopo 43 anni dall’ultima nascita: secondo le regole della comunità, il processo deve avvenire attraverso la fecondazione artificiale che però fallisce; allora a una degli esseri emerge l’istinto di procreare biologicamente, ma le sue compagne le ricordano che la fecondazione artificiale è una conquista e che è meglio che l’ovulo e lo spermatozoo non si incontrino mai; tuttavia alla Camilla “dissidente” il desiderio resta, sostenendo che far nascere biologicamente un bambino rappresenti «un miracolo»: la robot Gaia, in cui trasla questo desiderio materno, si confida con la Camilla 1, la quale sostiene che il suo impulso sia una normale eredità del bias umano che l’ha programmata, e alla fine dello spettacolo Gaia è in dolce attesa, a dimostrare che è facile dire “fate legami e non bambini” – come si afferma durante lo spettacolo, riprendendo il celebre motto di Donna Haraway – ma è più difficile farlo). Nell’attraversare queste e altre questioni, pur con una drammaturgia semplice rispetto alle enormi controversie che implicano i temi attraversati dallo spettacolo (ma che proprio per la sua candidezza potrebbe risultare molto efficace davanti a un pubblico di adolescenti, come confidiamo che accada), Earthbound è uno spettacolo ecologista nella sua pratica di divulgare e ispirare storie che portino a moltiplicare il nostro immaginario ambientalista, come forma politica di resistenza e di rovesciamento del futuro che ci aspetta.
A moltiplicare il linguaggio e l’immaginario riesce anche Atlante linguistico della Pangea di Sotterraneo (in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati e Giulio Santolini; scrittura di Daniele Villa), un lavoro ispirato alle tante “parole intraducibili” che esistono nelle lingue del mondo, ovvero a quei concetti racchiusi in un solo termine che hanno bisogno di un’intera frase per essere tradotti in qualsiasi altro idioma. Prima di entrare in platea assistiamo a un video coi dialoghi che la compagnia ha registrato nei mesi precedenti tramite videocall con diversi madrelingua in svariate parti del mondo, discutendo di questi concetti e della loro portata universale, nonostante appartengano a specifiche culture. Dietro a una semplice parola ci sono infatti mondi, popolazioni e costumi: alle Isole Trobriand, buritilaula significa “confrontare le proprie patate per risolvere una disputa”; in finlandese, poronkusema indica “la distanza che una renna percorre prima di fare pipì”; in tedesco, Vorfreude è “la pregustazione di un piacere che deve ancora arrivare”. Una volta che noi spettatori siamo seduti in platea, gli attori entrano in scena con zaini e attrezzature da campeggio: indossano le mascherine (che non si toglieranno mai durante tutto lo spettacolo), si spalmano il gel igienizzante sulle mani, allestiscono il loro accampamento e srotolano un planisferio, chiedendosi come il mondo stia affrontando la pandemia. Subito siamo proiettati indietro al lockdown della primavera 2020, momento dichiarato di gestazione dell’Atlante linguistico della Pangea, e lo spettro del Covid-19 aleggerà durante l’intera messinscena: in più momenti dello spettacolo gli attori si avvicinano a un’estremità del palco e scrutano l’esterno, ricordando gli eterni momenti in cui siamo stati tutti costretti a restare chiusi in casa e potevamo guardare il mondo solo attraverso la finestra, ma anche impersonando la parola inuit iktsuarpok, “il senso di aspettativa che ti spinge ad affacciarti ripetutamente alla porta per vedere se qualcuno sta arrivando”. L’intero lavoro è infatti impostato sulla messa in scena stessa delle parole intraducibili: con la sua consueta e coinvolgente cifra stilistica composta da tanti brevi quadri dall’ironia cinica e profonda, Sotterraneo costruisce rappresentazioni che ruotano intorno ai concetti linguistici proiettati sullo schermo nello sfondo (per esempio per rappresentare la parola giapponese tsundoku, “mettere sullo scaffale un libro appena comprato insieme agli altri ancora da leggere”, gli attori raccontano le loro esperienze personali di libri acquistati e mai aperti mentre impilano un’altissima torre di volumi, che a un certo punto inesorabilmente crolla), ponendo anche in relazione tra loro concetti di lingue diverse per aprire ulteriori e arguti squarci speculativi, e nel farlo si toccano questioni complesse e attuali come il ruolo dell’arte («forse sono solo una persona del ceto medio che intrattiene altre persone del ceto medio», dice uno degli attori durante lo spettacolo), i funzionamenti del linguaggio e della mente («puoi davvero pensare a una cosa, se non hai le parole per dirla?») e soprattutto l’importanza di preservare la biodiversità: affermando nel finale che «la scomparsa di una lingua implica la scomparsa di una visione del mondo», Sotterraneo nell’Atlante linguistico della Pangea compie un atto politicamente ecologista nel ricordarci l’urgenza di evitare l’estinzione dei linguaggi e per riflesso delle specie, di cooperare tra esseri umani adoperando le reciproche differenze come ricchezza anziché come limite, di svincolarci dal nostro innato egocentrismo come approccio necessario per costruire un “mondo del dopo” più complesso, multiforme e pertanto ecologista.
Come afferma ancora Carl Lavery in Performance and ecology: what can theatre do?, il teatro può definirsi eco-critico quando ha «la capacità immanente di influenzare i corpi, individualmente e collettivamente», a proiettarsi in «prospettive future ecologicamente progressiste» e «mutamenti di comportamento verso immersioni estatiche e incantate nell’ambiente e nella natura»: in questo senso, i nuovi spettacoli di Marta Cuscunà e Sotterraneo riescono ad attuare l’urgenza di contagiare gli spettatori con pensieri e stimoli per aiutarci a concepire il mondo in maniera più problematica, multipla e complessa rispetto a come siamo abituati a considerarlo.
L'autore
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Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).