Adolescenza: come sabbia tra le dita
Da che angolatura fotografare la sabbia che mi scorre tra le dita? Che obiettivo scegliere per catturare le sfuggenti metamorfosi di cui sono testimone? Come amplificare la voce a tratti flebile di Sara? In poche parole come mettere in scena una fase della vita, l’adolescenza, di per sé sfuggente e incatturabile? Come rappresentarla?
Comizi d’amore #ADOLESCENTI, progetto capitanato da Kepler-452 ci ha provato con tre squadre artistiche che hanno lavorato in tre istituti superiori della città (Liceo Minghetti, Aldini Valeriani e Belluzzi). L’adolescenza nell’immaginario collettivo è l’età difficile per eccellenza, ma anche una fase cruciale e decisiva, un periodo di sviluppo nel quale, oltre alle difficoltà e ai timori legati ai cambiamenti radicali si celano grandi possibilità di sviluppo e forti potenzialità esplorative. Come metterli in scena questi adolescenti nella cornice pasoliniana dei Comizi d’amore?
E ancora: di cosa parliamo quando parliamo di sesso? Probabilmente, per dirla con una battuta, di tutto meno che del sesso e della sessualità. D’altronde, la parola che ci accoglie scritta sulla lavagna di un’aula del liceo Minghetti nella prima scena dell’episodio di Comizi d’amore #ADOLESCENTI curato da Nicola Borghesi e Niccolò Fettarappa poco ha a che vedere con questi temi: «Merito», ci dice un ragazzo con piglio deciso, «è il concetto che si è aggiunto a quello di “istruzione” nel nome dello stesso Ministero». Merito, concetto-fuffa e truffa ideologica, è fra i motivi che spingono i ragazzi e le ragazze dell’istituto bolognese a occupare per quattro giorni la scuola – un’occupazione realmente avvenuta mentre gli artisti conducevano il loro laboratorio e che in maniera abbastanza naturale è diventata poi oggetto anche della rappresentazione. «Non pensiate che questo sia uno scherzo», prosegue ancora più duro il ragazzo. «Non sto mica recitando». È il momento di mettere in discussione “lo stato di cose vigente”, di autodeterminarsi. «Per questo, per altro, per tutto», afferma addirittura ricalcando lo slogan del collettivo di fabbrica Gkn.
Un’assemblea a cui siamo invitati a osservare
Similmente, anche se con tutt’altri accenti, nella sala teatrale dell’Istituto Aldini Valeriani – per l’occasione organizzata a mo’ di assemblea informale con le sedie disposte a cerchio – il regista Alessandro Berti ci racconta che durante il laboratorio sì è finiti a parlare non tanto di sesso e amore ma di argomenti più laterali: ansia di prestazione, solitudine, paura di non farcela. Uno slittamento dovuto alla volontà di ascoltare le urgenze e i bisogni profondi degli studenti. Poi però, con un procedere da “talk” quasi improvvisato, di sessualità e di relazioni si parla eccome, soprattutto in relazione al recente evento pandemico: si discute (molto) di pornografia e di come questa vada a influire sulle proprie intimità, del desiderio o non desiderio di avere figli, delle differenze fra femmine e maschi (questi ultimi in netta prevalenza a prendere parola). Un dialogo plurale all’apparenza franco, vivace e aperto. Eppure, durante la prima replica, proprio quando qualcuno dal pubblico prova a mettere in crisi l’affermazione del regista per cui a scuola ci sarebbe una forte disparità di genere in termini quantitativi («Ma cosa vuol dire “maschio” e “femmina”?», chiede appunto una voce dalla platea), Berti tronca il dibattito in maniera brusca: «Apriamo e chiudiamo qui la parentesi woke». Durante la seconda replica il ritmo del dialogo tra gli adolescenti, per come lo abbiamo ascoltato fino a quel momento, pare invece incrinarsi, variare fino ad assumere una forma del tutto inedita: nella conclusione il dibattito si allarga e accoglie le domande di alcuni spettatori. «Quando dovete confrontarvi con alcune questioni complesse che riguardano la sessualità e la vostra vita, voi a chi vi rivolgete in privato? Preferite ricorrere a un amico, un parente oppure consultate il web?», chiede un un uomo seduto in prima fila. Alessandro Berti, allo scoccare dell’ora, offre la possibilità al pubblico, in silenzio fino a quel momento, di intervenire liberamente, per porre altrettante domande, generare discorsi nuovi o presentare agli adolescenti pareri del tutto personali. L’assemblea, adesso, suona tutta insieme, adolescenti e adulti: una voce costituita da lunghi silenzi, pause, esitazioni, imbarazzi, bruschi cambi di velocità, microfoni che passano di mano in mano scavalcando le prime file di sedie, risate. Rivelazioni a cuore aperto sussurrate allo spettatore seduto dietro, incertezze sul domani o ragionamenti a voce alta danno vita sul finire dell’assemblea a una discussione collettiva accesa. Il tutto, comunque, dopo che si è proceduto all’interno di un canovaccio prefissato (elaborato a partire dalle risposte raccolte durante i laboratori) che ruota attorno a dei “nodi cardine”. Viene da chiedersi: a che tipo di dibattito stiamo assistendo? I ragazzi e le ragazze stanno davvero dialogando spontaneamente fra di loro oppure ciò a cui stiamo assistendo è la rappresentazione di un dialogo, una chiacchiera “senza peli sulla lingua” ma che risente inevitabilmente della cornice finzionale?
Quando scompaiono gli adulti?
Anche al Minghetti permane questa sorta di ambiguità. Le scene, concepite quasi come un susseguirsi di “quadri” che si svolgono in diversi ambienti dell’edificio scolastico (scalinata interna, chiostro e cortile) sono esplicitamente recitate, a volte in forma di confessione intima altre volte a gruppi a mo’ di moderno coro greco. Ma su tutto, forse, prevale infine lo “sguardo adulto” di Borghesi e Fettarappa che si lanciano in diversi monologhi per descrivere la distanza (anagrafica, energetica, erotica) che li separa dalle pulsioni vissute dai ragazzi e dalle ragazze del liceo bolognese. Certo, a unire comunque le generazioni in scena fra loro sembra esserci un “universale”, che però non è il sesso o l’amore bensì, paradossalmente, l’“ansia”, la paura di non farcela, una sensazione di dissenso o disappunto verso un sistema – che dalla scuola al teatro fino al lavoro è un sistema dis-educativo rispetto al desiderio e al piacere di ciascuno. I monologhi raccontati dai ragazzi e dalle ragazze del Minghetti vanno a catturare e a dar voce a chi ha avuto desiderio, coraggio, esigenza di esprimersi senza la pretesa di parlare per tutte e tutti, senza fotografare gli adolescenti nella loro complessità. Adolescenti sono tuttavia anche quelli che non hanno avuto quel coraggio, quelli che hanno votato contro all’occupazione, quelli che non hanno preso parola, gli sfigati vestiti Benetton, i nerd della quinta ginnasio che non sono “i règaz”, che non sono Andrei o Marco. I grandi assenti sono loro, quelli che esistono e che sfuggono dalle categorie che forse non sono nemmeno accorsi a vedere in scena splendere i compagni e le compagne. Alla fine la sensazione è che a prendere parola siano quelli che già hanno strumenti affilati per autodeterminarsi, i più maturi, quelli già capaci di definirsi. Ma l’adolescenza è anche la possibilità di essere accolti anche quando non siamo capaci di definirci perché una definizione per noi non c’è e meno male perché possiamo vivere e ballare al nostro ritmo che forse non è quello della techno di Rossini.
Il teatro di Kepler-452 ci ha abituato a una presa graffiante del teatro sulla realtà grazie a slittamenti semantici, a cedimenti del reale nel finzionale e viceversa. Nell’ambito di Comizi d’amore #ADOLESCENTI viene da chiedersi se e in che misura l’occhio adulto ha collaborato all’emersione di alcuni discorsi piuttosto che altri, se la possibilità di indugiare e soffermarsi su determinate questioni sia stata dettata da una sapiente ritmica registica e drammaturgica capace sì di ascoltare i ragazzi e le ragazze ma capace altresì di “montare” quei pensieri, mettendoli in forma. Cosa si perde in questo processo? A chi appartengono, alla fine, le voci in scena? Alle Aldini Valeriani, invece, regista e attori al centro dell’aula si mettono decisamente in secondo piano, orientando la discussione ma limitandosi sostanzialmente a passare il microfono a chi fra i ragazzi desidera intervenire. Il tutto fluisce in maniera piacevole e senza intoppi e con una marcata parvenza di genuinità nelle risposte ma, anche in questo caso, dopo un po’ è come “se le squadre fossero già fatte”, sembrerebbe quasi di poter indovinare i posizionamenti che i diversi studenti prenderanno sui temi lanciati nel dibattito. È perché iniziamo a conoscere le loro singole personalità o perché si stanno incarnando dei personaggi con dei ruoli precisi?
In scena i retroscena
Al teatro – chissà – manca forse la possibilità di operare una “presa diretta” come faceva Pasolini con la sua cinepresa, per quanto in maniera molto mediata e ragionata. Non c’è la possibilità di “registrare” parole a bruciapelo. Sono gli stessi artisti a dichiararlo, dicendo che allora il compito della scena potrebbe essere quello di esplorare e inabissarsi nei “silenzi” che intercorrono fra le domande poste dall’intellettuale friuliano e le risposte date dalle persone intervistate nel suo documentario. Vale a dire, mettere in scena dei retroscena – che però, se consideriamo amore e sesso, sono quelli labirintici e imponderabili dell’inconscio, delle inibizioni, dei tabù individuali e collettivi. Impresa ardua, per non dire impossibile. Forse, attraverso il sesso, è possibile parlare solo di altro o solo per mezzo di altro riusciamo a parlare del sesso. Di certo, d’amore non può esistere realmente nessun comizio: solo qualche barlume, pochi accenni, frammenti di discorso ambiguo e mutevole come l’adolescenza stessa, in cui si specchia e non ci si rispecchia.
(con contributi di Damiano Pellegrino)
Gli autori
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.
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Classe 78, veneta di nascita e bolognese d’adozione, si laurea in lettere e filosofia al Dams Teatro e per alcuni anni insegna nelle scuole d'infanzia di Bologna e provincia e lavora a Milano nella redazione di Ubulibri diretta da Franco Quadri. Dal 2007 è giornalista iscritta all’ordine dell’Emilia-Romagna. Ha collaborato con La Repubblica Bologna e l’Unità Emilia-Romagna scrivendo di teatro e con radio Città del Capo.