Pueblo è l’ideale continuazione di una trilogia iniziata nel 2015 con Laika. È un racconto di spaccati di vita di uomini e donne appartenenti allo stesso pueblo, un popolo di ultimi, di umili e molto spesso umiliati, lasciati ai margini della civiltà, ma sempre in continua tensione verso la bellezza del mondo e colmi di una profonda umanità. «Questa è la storia di un giorno di pioggia», dice Celestini mentre guarda il pubblico, scostando la tenda bianca e leggera che copre la scena. È il velo oltre il quale l’attore scruta le vite degli altri attraverso una finestra puramente immaginaria. Le sue parole si riversano esse stesse come pioggia fitta e veloce, e ci raccontano di Violetta, cassiera di un supermercato qualunque, giovane donna che vive con la madre e che ama immaginare una vita diversa. Seduta davanti alla cassa, in quel metro quadro che la imprigiona, Violetta in realtà è una regina sul trono, e tutti i clienti che passano non sono altro che sudditi, che non comprano nulla ma le offrono doni e a cui lei risponde «grazie e arrivederci!». Said invece è un magazziniere marocchino, con un lavoro stremante e una dipendenza dal video poker. Il suo permesso di soggiorno è scaduto e deve lasciare l’Italia, «ma tornerò», ripete sempre alla fidanzata. Lei si chiama Domenica, è la barbona gentile che sta fuori dal supermercato dove lavora Violetta, con un passato da riscrivere: un padre severo che le insegna a rubare; le «suore bastarde» del collegio da cui scappa; le viscide braccia della prostituzione che provano a intrappolarla. Trova pace proprio davanti a quel supermercato e resta lì per anni, dispensando sorrisi e gentilezza, per poi morire un giorno qualunque col sapore di cappuccino decaffeinato in bocca. Non esiste alcun copione ma soltanto un abbozzo mentale, ci spiega Celestini prima dello spettacolo insieme al critico Massimo Marino. Pueblo nasce da una ricerca etnografica e da un intenso lavoro sull’oralità. È un’opera che ha preso forma attraverso il semplice atto del parlare. Con un linguaggio semplice e popolare, Celestini tratteggia i contorni di queste e di altre vite con un racconto che descrive la loro marginalità, ma illuminando al contempo tutti quei momenti e quei luoghi in cui si annidano gli sprazzi più sinceri di amore e felicità. L’attore ci guida in questo labirinto di vite attraverso una narrazione veloce, quasi affannata: le parole si accavallano l’una sull’altra senza sosta, come un turbine, ma sanno fermarsi nei momenti più intensi e il silenzio che si crea è denso e assordante. Accompagnato dal pianoforte e dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, presente sul palco, l’attore induce il pubblico a una riflessione profonda, attraverso sorrisi tristi, ritraendo la tenerezza e la bellezza anche nel dolore o, peggio, nella catastrofe. L’intento sembra essere quello di utilizzare il teatro come luogo perfetto per riscattare l’esistenza di questo pueblo, e ne vale davvero la pena perché «la nobiltà d’animo sta nel coraggio dell’umiltà».
Martina Bubba
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.