Primavera dei Teatri è il nome del festival, Castrovillari la cittadina calabrese che lo ospita, Scena Verticale, oltre al nome della compagnia, è forse una dichiarazione di principi o un programma di visioni, una stiva in cui raccogliere i bagagli teatrali per poi metterli in comune. Un ampio corso percorre il cuore del paese, fitto di vetrine adibite a sedi dei partiti in campagna elettorale. I larghi marciapiedi portano alla città vecchia, la civita, e recano tracce del mercato all’aperto del mattino. Poco prima di addentrarsi nelle ripide vie si arriva al Protoconvento Francescano, in cui si trovano le sale teatrali, un luogo “protetto” ma in dialogo col tessuto urbano. Primavera dei teatri è un festival “minuto” e “influente”: non insegue la quantità, non organizza giornate campali in cui correre da una rappresentazione all’altra, ma sceglie due spettacoli a sera, lasciando la possibilità di sostare e di “perdere tempo”, preservando quel ritmo di visioni che consente personali attraversamenti nelle opere e nei luoghi. Influente per l’attenzione che la direzione è riuscita a creare negli anni, supportata da un nutrito gruppo di addetti ai lavori e giornalisti provenienti da tutta Italia, ma anche da un pubblico curioso che riempie le sale. Una doppia anima, quindi, e una scommessa che sembra funzionare: Primavera dei Teatri è sicuramente uno dei pilastri del sistema dei festival della penisola, ma al contempo riesce a non essere semplice vetrina o appuntamento per addetti, ma resta in ascolto delle richieste che gli pone chi “teatrante” non è. Se dovessimo delineare un filo conduttore per la rassegna, dovremmo parlare di drammaturgia. “La parola a teatro”, questione focale o superata a seconda delle mode storiografiche, è stata al centro di questa edizione del festival. Gruppi come Teatro Minimo, Le Malebolge di Lucia Calamaro, Il Teatro Pubblico incanto di Tino Caspanello testimoniano di una vitalità della nostra scrittura teatrale che Scena Verticale ascolta e accompagna, per esempio attraverso Nuove Creatività dell’Eti, “vinto” da Castrovillari insieme ad altre nove strutture in Italia. Ma siamo sicuri che sia questo il punto? Ha senso etichettare un lavoro, una direzione artistica, un modo di essere nel teatro? Probabilmente no, o almeno non è sufficiente. Perché altrimenti, se scendiamo sul piano dei “temi”, dei percorsi e delle linee curatoriali che soggiaciono a molti festival, troveremo programmi più o meno “interessanti”, idee più o meno originali, percorsi più o meno coerenti. Scivoleremmo insomma nelle graduatorie di qualità, che in questa penisola festante spesso corrispondono alla quantità di moneta disponibile. Sono pochi, infatti, i luoghi in cui si osa un pensiero diverso, in cui il teatro è quasi sottotraccia, perché aperto alle domande e alle contraddizioni dell’oggi. Quando questo accade, siamo “costretti” infine a tornare alle opere, ma al di là di ogni etichetta, per capire se queste sono in grado di parlarci del presente, per metterlo in crisi. In tali luoghi sarà quindi possibile vedere lavori imperfetti e non terminati, o anche “sbagliati”, dato che il centro non sta lì. Queste spore viaggiavano nell’aria di Castrovillari insieme ad alcuni spettacoli, ma anche durante il dopofestival alla “Torre Infame”, durante gli incontri pomeridiani, o nei momenti di pausa nel chiostro del Protoconvento. In questa nota vogliamo sostare su due spettacoli emblematici, che adottano un registro diretto, talvolta schematico, in cerca di un valore emozionale che si faccia linguaggio teatrale, metafora forse dell’anima del festival.
Il Land Lover di Gianfranco Berardi è una specie di Resort, un hotel all-inclusive che sta in una località esotica, come leggiamo nella nota di presentazione. Siamo in una sala d’attesa, al cospetto di un misterioso guaritore che potrebbe risolvere i problemi delle figure che in scena. C’è un uomo in vacanza, tipica raffigurazione dell’italiano del nord tutto lavoro e cellulare. Ha l’accento milanese, anche se dice di essere di Modena. C’è la bigotta un po’ toccata, in cerca di nuove influenze e incontri spirituali, bruttina, con i classici occhiali a fondo di bottiglia. Poi incontriamo la prostituta tormentata, interpretata da Berardi, pronta a dare amore e sempre schiaffeggiata dalla sorte. Il prete vive su una carrozzella, biascica parole in pugliese, è ossessionato dal Diavolo e aggredisce chiunque gli faccia visita. Ha un rapporto di amiciza con la prostituta, che vorrebbe redimere. Intanto sul palco si alzano le musiche, e ci si trasferisce nella discoteca del Land Lover in cui avviene l’incontro fra la prostituta e l’uomo del nord. La storia che ne nasce, con relative promesse matrimoniali, porta la donna al naufragio dell’ennesimo abbandono. Berardi “gioca coi sentimenti” maneggiandoli con una semplicità che disarma: le situazioni in scena sono solo accennate, presentate come da un catalogo di modi di essere, di stereotipi, di sketch. Non c’è introspezione, poca o nulla è la psicologia dei personaggi, e anche l’esile intreccio affiora più da gesti e situazioni. Fin qui nulla da eccepire, non fosse per un tono che sul finale vira decisamente verso il dramma, verso una presunta scossa emotiva, in cui l’effetto che si vuole raggiungere ci viene imposto senza possibilità di replica. “Far vedere” il milanese, la bigotta e la prostituta non basta se si punta molto in alto come immaginiamo voglia Berardi: resta il senso di una storiella solo in parte divertente (perchè allora, se proprio vogliamo divertirci, meglio certe situazioni di Aldo Giovanni e Giacomo), che ricatta lo spettatore con continui commenti musicali sulle scene che devono commuovere, in cui però manca del tutto uno spessore, un fondo. Manca cioè un vero affondo nella banalità che diventa solitudine, quella che porta per davvero tante persone alla ricerca di compagnie diciottenni, sui nostri marciapiedi e oltreoceano. Rimane quindi una superficie, esile e diretta, pericolosamente prossima all’intrattenimento e per questo luccicante a una prima occhiata, sulla quale gli attori scivolano con agio. Nulla di male, se da questo non si pretendesse più del lecito, se dietro a questo non si volessero trovare profonde riflessioni che così presentate lambiscono la mistificazione.
Altro discorso va fatto per l’efficare U Tingiutu di Scena Verticale, scritto diretto e interpretato da Dario De Luca insieme a un affiatato gruppo di attori. Un Aiace di Calabria recita il sottotitolo, e il parallellismo si attesta anche qui su un registro di immediatezza: come Aiace e Ulisse di Sofocle erano in litigio per ereditare le armi di Achille, qui due malavitosi si scontrano all’interno delle dinamiche di un clan calabro. I codici scelti da De Luca, pensiamo con estrema lucidità, occhieggiano a un certo cinema d’ascendenza tarantiniana: i mezzi del teatro (buio – luce – buio) rivedono i meccanismi della dissolvenza cinematografica, con molti stacchi sonori a fungere da ponte tra una scena e l’altra. Dalla stanza di un obitorio, sede di loschi traffici e commerci illegali, passiamo allo stesso luogo ma con altri personaggi – Aiace e Ulisse alla resa dei conti – in cui l’uno ha rapito l’altro prima dell’epilogo finale. In aggiunta, proprio come in Jackie Brown di Tarantino, continue analessi e prolessi rompono i piani temporali, e lo spettacolo si conclude con la stessa scena che avevamo visto all’inizio: il conflitto porta a una risoluzione tragica, che De Luca sceglie di anteporre a tutto, sezionando i meccanismi anche narrativi che la producono, riavvolgendo il nastro in cerca di inceppamenti e vuoti di senso forse in grado di produrre un cambiamento. Anche la recitazione ha un certo ascendente filmico, spostata su un tono gangsteristico che privilegia l’esteriorità del tipo, dal capobanda Agamennone al gregario un po’ schizzato. La scelta è quindi chiara, e per questo funziona. Entrati dentro alla convenzione, assunta la grammatica del codice, ci accorgiamo che De Luca va a scavare sotto alla violenza, sotto ai meccanismi che la generano e che la rendono tutto sommato “accettabile”. Nessuno che si ribelli al divieto di seppellire Aiace, “macchiato” dal clan per avere disobbedito, eppure uomo giusto e valoroso. Nessuno che intervenga, che racconti quello che ha visto. Anche noi stiamo lì a spiare, dalle fessure di veneziane che calano all’inizio sul proscenio. Nessuno che provi a far divenire questi moderni “eroi” un po’ meno di quello che sono, per far decadere la loro aura, il loro potere intoccabile. Lo ha fatto De Luca raccontandoli in modo “epico”, ma allo stesso tempo instillando dubbi, spingendo su una sorta di “identificazione interrotta” in cui col procedere della storia aumentano anche le domande su quanto stiamo vedendo. Forse, queste domande che l’opera ci pone, potranno essere ancora precisate e in un certo senso approfondite, soprattutto nel rapporto fra l’altisonanza dei nomi greci e la magnetica meschinità dei personaggi, così precisamente attaccati a questa “italiana” Calabria di oggi.
(foto di Claudio Morelli)
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.