Un gesto preciso, diretto, che viaggia da un punto a un altro. La preghiera è progetto della voce e del desiderio, uno slancio. Con Il Regno profondo Claudia Castellucci porta in scena il salto dell’invocazione e ne fa danza senza spazio, disegno senza foglio; suoi unici strumenti il corpo seduto, la voce e il pensiero nelle parole del testo; uno scrittoio e un microfono dietro cui soffermarsi e da cui lanciare le proprie suppliche. La recitazione e il canto si alternano e si svolgono nel sermone come anime di una conferenza necessaria e intima, profondamente terrestre eppure lieve e piena di spirito.
Chi parla è un essere umano, una «capocchia di spillo» tra le infinite vite confuse nella vita del mondo, e con tono cantilenante di oratore sacro si rivolge a Dio con una precisa richiesta. Non farmi rinascere, chiede, non farmi resuscitare, non farmi di nuovo occupare un corpo, quel corpo «appartamento» dentro il quale siamo ospitati senza conoscerne il motivo. L’esperienza del nato, del già vissuto, impedisce a rigor di logica di desiderare un’altra vita. Se pure appartiene al «ceto che non ha problemi di soldi», se anche quando soffre «è sempre solo un male da signori», non si fida, sa che aderire nuovamente alla materia è un rischio troppo grande: sa che esistono il freddo, la fame – fame universale che chiede rimedi universali («battaglia ancestrale che rappresenta tutti i dissidi interiori») – e ogni genere di violenza umana. Vere e proprie personificazioni del male, sono nemici incontenibili, potenze incommensurabili e sempre pronte ad attaccare (e ultraviolence è stampato a grandi caratteri sulla maglietta della Castellucci, da cui si sporge l’occhio ammiccante di Alex Drugo).
Tuttavia la preghiera lanciata dall’uomo non parte per disvelare, non va alla ricerca di qualcosa che sta oltre le cose del mondo. Quel che conta per la voce che si lancia verso Dio è il suo stesso viaggio di andata, la traiettoria del canto, il senso inteso come direzione e non come significato. Pregare è per pregare – o meglio, per pregare nessuno, qualcuno che non è – attaccandosi alla consapevolezza di non avere interlocutore, gettando le parole verso il nulla, oltre ogni cielo di carta. «Oh, povero nulla! Che ti hanno fatto?», chiede la voce esasperata, e si dilunga e si acuisce sul tono interrogativo. Il vuoto è costantemente «imbrattato, farcito, gonfiato di forme», ostinatamente negato dalla mente umana. Così, nel «paese di Fandonia», terra confortante del mito, regna l’antropomorfismo divino e ci si aggrappa all’immagine e alla somiglianza di un Dio dalle sembianze umane, invisibile perché lontano, adorabile perché impossibile da raggiungere con il corpo e con il pensiero. «Desidero tanto pregare senza nessuno da invocare»: la preghiera, possibilità di «vita al di fuori della vita», al di fuori dunque della forma, si indirizza a nessuno, dove nessuno è qualcuno, deve essere qualcuno, avere una consistenza che è appunto la consistenza del nulla, del vuoto, che è puro spazio che accoglie la virtualità dell’infinito possibile.
E l’invocazione diventa allora l’unica misura delle cose: prima di sezionare e disfare la preghiera che ci è più familiare – un Padre Nostro insoddisfacente, di cui viene denunciata l’incoerenza delle frasi che lo compongono con risultati sorprendenti («venga il tuo Regno, ad esempio, riesuma un ciarpame monarchico») – l’oratore si sforza di comporre la sua preghiera quotidiana: «Sono nato, sono nato, sono nato e non dimentico di respirare tutti i giorni, tutti i minuti, in ogni istante». La vera preghiera usa «parole come attrezzi che realizzano qualcosa» e qui invoca la nascita che è nascita del respiro, del soffio ritmico che regola la vita. Quando Claudia Castellucci racconta della sua trascorsa esperienza con la Stoa, “scuola di movimento” della Socìetas Raffaello Sanzio, parla di ritmo come elemento fondativo del movimento, non solo nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Cambiamento costante che è moto del pensiero e della vita. Si prega l’evidenza incontrastabile della nascita e del respiro: nello spazio vuoto tra un respiro e l’altro, tra una battuta e l’altra è forse il senso, la direzione sacra della vita. Non sembra un caso se la compagnia di ballo fondata da Claudia ha per nome “Mòra”, termine che nella metrica classica definisce lo spazio vuoto indispensabile per distinguere un ritmo. Questo silenzio fluttuante, che ricorda il concetto giapponese di Ma, tempo impossibile da misurare, è condizione necessaria alla preghiera per la preghiera, all’invocazione che non può e non vuole avere risposta.
Il Dio antropomorfo del paese di Fandonia non è circondato da misteri, se non da quelli della mente umana, il “regno profondo” dentro cui l’io si riproduce e conversa tra sé e sé. Abitando il limite tra peso e leggerezza (quella leggerezza d’humor che per Calvino è «poesia del nulla» capace di polverizzare la realtà) Claudia Castellucci compone nel Regno profondo una litania punteggiata di picchi tonali, incantata di ritorni anaforici. L’accompagna con il viso e con il gesto, intrecciando corpo e parola in una sola lunga melodia. Accade che il pensiero dell’uomo si trasformi in mobile linea grafica e poi in linea vocale: la scena può allora essere il luogo dove azione e riflessione filosofica possono aderire, il teatro lo spazio vuoto dove osservarle tracciare desideri.
di Alessandra Cava
foto di Pierre Planchenault
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.