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(foto di Dario Bonazza)
(foto di Dario Bonazza)

Polis Festival, il teatro come lingua comune

di Giulia Damiano

Se con uno spettacolo picchi il pubblico, il pubblico risponde; se gli parli no.

Un ragazzo mentre mangiava cappelletti al tavolo del Teatro Socjale di Piangipane, 2024

Dal 7 al 12 maggio 2024 si è tenuta, a Ravenna, la 7° edizione di Polis Teatro Festival, con un focus sulla scena contemporanea tedesca. Il festival, ideato e diretto da Davide Sacco e Agata Tomšič, della compagnia ErosAntEros, è dal 2018 un interessante scorcio per guardare l’affondo che l’arte può fare nel sociale e – verrebbe da dire, non dandolo per scontato in questo settore – viceversa. Tra gli intenti che il festival dichiara fin dalla sua prima edizione c’è quella di «offrire alla cittadinanza la possibilità di entrare in contatto con quelli che nella polis antica venivano chiamati i tecnici di Dioniso, ovvero coloro che attraverso l’arte teatrale, trasmessa per contagio da un dio, portavano i cittadini a condividere uno spazio e un tempo di riflessione sul presente». A partire dal 2022 il progetto si è aperto alla scena internazionale, con un focus sulla drammaturgia contemporanea francese. Il 2023 è stata la volta del Balkan Focus, e quest’anno si approda in Germania.

La locandina del festival di quest’anno ospita, come da tradizione, un disegno di Gianluca Costantini, fumettista ravennate noto per le sue opere di graphic journalism (famoso è diventato il ritratto che fece di Patrick Zaki), che per questa edizione di POLIS omaggia Il cielo sopra Berlino, film di Wim Wenders. L’angelo disegnato, dichiarano Sacco e Tomšič, è però anche l’Angelus Novus di Paul Klee, ripreso da Walter Benjamin con la sua teoria di “angelo della storia”. In questo senso l’angelo è sia testimone di una comunanza che valica i muri, i confini, sia uno sguardo sulle rovine che la storia macina. L’ambivalenza dell’angelo disegnato per POLIS rispecchia un po’ il riunirsi di artisti provenienti da realtà diverse, che osservano e riflettono le macerie del nostro presente, attraverso la lingua comune del teatro.

Il festival conta a Ravenna (in particolare Teatro Rasi, Artificerie Almagià e Teatro Socjale) diversi eventi, oltre agli spettacoli, tra cui due tavole rotonde (registrate e recuperabili online dal sito del festival) e momenti di confronto tra studiosi, artisti e operatori internazionali, senza escludere il motore partecipativo del progetto: gli spettatori.

Quanto agli spettacoli troviamo, tra le ospitalità internazionali del festival: Posseduto del collettivo femminista berlinese She She Pop; The Walks del collettivo berlinese Rimini Protokoll; Death and Birth in My Life dell’artista svizzero Mats Staub; Autodiffamazione della compagnia italo-tedesca Barletti-Waas. ErosAntEros presentano in prima assoluta Sulla difficoltà di dire la verità, tratto, come anche Santa Giovanna dei Macelli, dall’opera di Brecht. E tra le presenze nazionali e più giovani: Millenovecento/89 del duo Le Cerbottane e Still Alive di Caterina Balivo.

Di seguito ripercorriamo alcuni dei vari spettacoli e momenti di condivisione di questa edizione avuti, in particolare, negli ultimi due giorni del festival, l’11 e il 12 maggio.

(foto di Dario Bonazza)

Sulla difficoltà di dire la verità di ErosAntEros

Sulla difficoltà di dire la verità, coproduzione del festival presentata in prima nazionale l’8 maggio 2024 al Teatro Rasi in occasione del festival, è tratto dal saggio politico-letterario di Bertold Brecht Cinque difficoltà per chi scrive la verità. Durante la stessa giornata vi è una delle due tavole rotonde previste a Polis, “Disinformazione e rischio democratico a un mese dal voto europeo”, che vede tra i partecipanti anche Michele Lapini, fotografo freelance interessato a temi sociali, politici e ambientali, le cui foto hanno un ruolo chiave nello spettacolo.

Lapini stesso, durante la tavola rotonda e a seguito della visione dello spettacolo, ci tiene a precisare che la fotografia viene spesso usata come prova di quel che si dice (specie nello scadente giornalismo presente), ma non è così: «la fotografia è una verità, o la verità mia»; la fotografia, continua, «è una presa di posizione», dunque una delle manipolazioni di realtà che è possibile fare con le arti. Su questo aspetto Brecht stilò nel 1934 una sorta di ”istruzioni” a intellettuali e artisti, avvertendo che il fascismo è presente anche per chi scrive nei paesi della libertà borghese.

E anche uno spettacolo che può sembrare una semplice lettura del testo brechtiano, con l’aggiunta di foto più o meno zoomate di scontri con la polizia, manifestazioni e movimenti, più che da sfondo hanno un ruolo attivo in un tentativo di ri-attualizzazione.

Questo messaggio, ri-mediato dagli ErosAntEros, sulle difficoltà di dire la verità odierna passa per la ricerca visuale (attraverso il susseguirsi di immagini di realtà) e per quella sonora (curata da Davide Sacco) che scandisce un tempo che picchia, che colpisce con forza, lo spettatore: in sfida aperta con l’indifferenza.

(foto di Benjamin Krieg)

Posseduto. Monologo collettivo di She She Pop

Sempre al Teatro Rasi, la sera di sabato 11 maggio, arriva il collettivo femminile berlinese She She Pop, con la prima nazionale di Posseduto. Monologo collettivo.

La ricerca teatrale che il collettivo femminista berlinese porta avanti è quella del cosiddetto “teatro senza pubblico”. La scena è vuota, tutto ciò che avviene, avviene in platea, in quel gruppo di persone che fin dall’inizio non è, per definizione, pubblico, ma a metà tra spettatore e performer, tra cittadino e rappresentante: chi è seduto in platea? Di quale fetta di popolazione si fa portatore in quel teatro? Posseduto indaga forse questo.

Il tema attorno a cui gravita il monologo di questo gruppo indefinito di persone riunite in questa stanza è la proprietà. Sullo schermo vengono proiettate delle battute da vari gruppi di persone (per esempio “coro di donne insicure per la propria condizione futura”, “progressisti”, “esteti”, “cattolici”, “minoranze”, “ravennati”, “ambientalisti”, “generazione z”, “ottimisti” e così via.

Lo spettacolo assorbe e si adatta alle questioni del luogo in cui si trova: in questo caso si parla delle torri Hamon, strutture di raffreddamento della ex raffineria Sarom di Ravenna. Eni sta demolendo le ultime due, e l’intero lotto di alcune decine di ettari verrà ceduto all’Autorità portuale per realizzarvi un parco fotovoltaico. Sentimenti contrastanti si presentano quando una struttura simbolo del progresso per la storia industriale ravennate, viene giù. Doppia nostalgia se si pensa che quest’anno, non solo verranno abbattute definitivamente tali strutture, ma ricorre anche il 60esimo anniversario dell’uscita di Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni – alcune battute del quale vengono riprese nel monologo. Il film ritrae la sagoma iperboloide delle torri, restituendo alla memoria di una città, la loro elevazione a simbolo. Il dibattito tra ravennati, esteti, anziani, ecologisti si accende sul copione proiettato sullo schermo e dalle poderose voci che lo recitano in platea.

Come fa la compagnia tedesca a penetrare nelle questioni cittadine? Ce lo spiegano nell’incontro post-spettacolo tra She She Pop e Gianni Manzella. «Il nostro spettacolo non è sulla fiction-fantasia, ma su quel public space che è il teatro». E dichiarano: «questa è una produzione che evolve costantemente, in ogni posto in cui la portiamo».

L’eredità di Brecht che il collettivo accoglie è il lavorare in strutture a gioco; l’improvvisazione e lo sperimentare un esercizio di parola tra i vari campioni di popolazione che partecipano al gioco del teatro è una sfida per provare a parlare as one. Definito «a projected text for the public», in questo lavoro sono centrali tanto la proprietà quanto l’identità: ognuno può parlare sia come individuo, che come comunità. Quando si tenta di riconoscersi in un gruppo, bisogna fare i conti con l’etichetta che ci si è auto-attribuiti e con quello che la comunità dice. Ma rimanendo nello spazio di gioco che offre questo tipo di fare teatro, è «interessante a volte identificarsi in un gruppo ma non condividere quel che viene detto».

La volontà della compagnia è quella di ri-creare scenari che tengano accesa la diretta interazione col pubblico e fare in modo che, giocando, il sé si metta alla prova nel gruppo. Avere una propria opinione è quasi un “mito”, ma – continua il collettivo – «alla fine siamo animali sociali»: a volte si prova l’opinione altrui e si vede come va, come ci si sente in quei panni. La proprietà è una questione divisiva, ammette il collettivo, ma bisogna fare lo sforzo di trovare un terreno comune, considerarsi uniti sulle tematiche ambientali, sui beni comuni, sulle questioni di cui è necessario iniziare a parlare in coro.

La performance collettiva termina con un giuramento: una persona dal pubblico si alza e legge “io conto”. “Anch’io conto” aggiungono uno a uno gli altri. Si comincia a intonare una stessa nota; alcuni la mantengono, mentre altri ne producono e mantengono altre. Si forma una strana e calda sinfonia, prodotta da chi «crede ancora nella solidarietà». Scatta l’applauso e rientra in se stesso, con questo atto di ”ricongiungimento” al bon ton teatrale, il pubblico. Lo spettacolo è finito: il coro, tornando a farsi delimitare dai braccioli delle sedute, restituisce a ognuno la propria vacillante individualità.

(locandina di Le Cerbottane)

Millenovecento/89 de Le Cerbottane

La quinta e ultima giornata del festival si apre nello stupendo Teatro Socjale di Piangipane con Millenovecento/89 de Le Cerbottane. Lo spettacolo teatrale è, come dice il duo di attiviste-artiste, solo la prima tappa di un progetto chiamato L’alba dell’imbrunire, da loro definito «riflessione multiforme» e «mappa per orientarsi nel secolo scorso». In scena ci sono Laura (Laura Pizzirani) e Francesca (Francesca Romana di Santo), due bambine, poi ragazze e donne che, da quel fatidico novembre 1989 – quando il crollo del muro di Berlino e la svolta della Bolognina generarono in Italia qualcosa di vicino a un trauma collettivo -, attraversano le loro vite in parallelo alle vicende politiche e sociali che in quel periodo vissero persone e famiglie fedeli a una linea che, tantopiù in Italia, si era sfocata e che si avviava a terminare con un punto.

Entrambe le protagoniste, l’una bolognese e l’altra romana, crescono a pane, PCI, pop anni Ottanta e contraddizioni. Il tutto viene riportato in maniera parodica e confusionaria, come potevano viverla due ragazze dell’epoca. Le due si trovano, in un certo momento della loro vita al cospetto di uno spettro che «vuole essere vendicato». Immaginando un dialogando con bizzarro Marx dall’accento abruzzese, le giovani sentenziano: «hai dimenticato le donne» – riferendosi all’annosa questione che le femministe teoriche della riproduzione sociale rimproverano al marxismo – e continuano «non è solo questione di classe, ma anche di genere e razza», arrancando un’apertura al femminismo intersezionale. Tale confronto termina bruscamente con lo spettro che scompare e le due che replicano «siamo stanche di maschi che si offendono». Il tutto va avanti tra canti, balli in completi da ginnastica anni Ottanta, pubblicità che narrano il consumismo sfrenato e via fino all’età adulta.

Ci troviamo, a questo punto, al tavolo rosso con lo storico simbolo del PCI: le due donne sono segretarie-centraliniste presso la sede del Partito Comunista. Iniziano una serie di messaggi di segreteria telefonica, ben 1921: «tutti vogliono ritirare la tessera», «il partito degli operai, dei braccianti è finito», «non vorrei non sapere chi andare a votare», «state svendendo il partito!», «secondo me Occhetto è stato pagato dagli americani!», «quel socialista da broncopolmonite di Bettino Craxi non mi frega, non si cambia nome», e ancora una coppia di coniugi che litigano davanti al telefono «per me Occhetto ha fatto bene, mia moglie non è d’accordo» e la moglie «perché non un referendum per casalinghe?». Il dibattito, come all’epoca, si fa acceso quanto al nome e al simbolo del partito: per esempio sull’uso del garofano rosso come nuovo simbolo del PSI scelto da Bettino Craxi: «ma perché li usiamo per i comunisti e sono di Craxi? Non è che ce li ha rubati mentre eravamo distratti?». Alla fine lo spettro ri-appare e, avendoci pensato un po’, si dice convinto dall’approccio intersezionale e si congeda con l’intento di diffondere il verbo «vado a fare un po’ di marxplaining».

Lo spettacolo, oltre alla vena ironica e leggera che attraversa parodicamente le mode e gli stereotipi delle varie decadi, ha una chiave non poco nostalgica ma, se vogliamo, anche problematizzante: in che modo la politica incideva e incide sulle nostre vite? E quanto è pericoloso allontanare il politico dal personale? Cosa rimane, quando finiscono, di memorie di famiglia, idee, epoche, partiti, nomi, simboli, avvenimenti, crolli e soli che sembrano sempre più lontani dall’avvenire?

Lo spettacolo sembra continuare in quel teatro così strano e affascinante: costruito nel 1920, alla vigilia del fascismo, il Teatro Socjale di Piangipane si presenta come una grande sala contornata da una galleria con colonnine bianche, con un bancone da bar sulla destra, tavoli con sedie e in fondo il palcoscenico rialzato. A fine spettacolo inizia il dibattito con Le Cerbottane e a seguire, come da tradizione nella struttura, vino e cappelletti fatti in casa. Due signori cominciano al tavolo avviano una discussione su quello che «è diventato un partito senza radici». Raccontano che in quel periodo crolla, oltre al muro di Berlino, anche il PCI e dunque i punti di riferimento. Uno di loro cita il primo racconto dei Dubliners di Joyce, in cui ricorda una prete che tutti considerano pazzo, ma che «perdendo la fede, non è più la persona che era»… E paragona questo episodio a «gente che dall’oggi al domani ha votato a destra». Un ragazzo al tavolo chiude con una considerazione: «se tu picchi il pubblico, il pubblico risponde; se gli parli no».

(foto di Expander Film)

The Walks di Rimini Protokoll

Segue The Walks, camminata itinerante in cuffie dei Rimini Protokoll, in un parco di Ravenna non lontano dal Rasi. Scaricando l’omonima applicazione ideata apposta per la perfomance, si accede alle registrazioni audio della compagnia. Esse guidano le spettatrici e gli spettatori in una passeggiata che, per il festival, aveva il tema “Parco” – tuttavia gli ambienti in cui poterla fare sono diversi, da soli o in compagnia, che sia al supermercato, al cimitero, in teatro, in strada o in acqua. Il patto tra compagnia e pubblico è quello di trasformare quegli spazi quotidiani, pubblici o privati che siano, in scenari teatrali. Nel caso del parco, si passeggia in coppia con un’altra persona e, allontanandosi, avvicinandosi o assecondando il passo dell’altro, si vive quello stesso spazio seguendo storie, descrizioni di fotografie di autorità internazionali, interpretazioni e dubbi sul camminare in compagnia. Alla fine dell’itinerario si chiede alla coppia di scattarsi una foto e, da una mappa sull’app è possibile scorrere le foto di spettatori e spettatrici di tutti i luoghi nel mondo in cui la performance è girata. L’esperienza è peculiare; il teatro sembra più familiare se a portata di sandalo e condiviso attivamente con altre persone.

(foto di Tanja Dorendorf)

Death and Birth in My Life di Mats Staub

Ai partecipanti e alle partecipanti del festival viene proposta un’ultima prova di empatia con Death and Birth in My Life di Mats Staub al’Almagià di Ravenna. Le video installazioni pensate da Staub sono solo la fine di un lungo progetto che conta 85 interviste registrate tra Europa e Africa. Quella che l’artista svizzero propone è una selezione di ritratti racchiusi in otto interviste, che ruotano attorno alle domande di partenza: «Quali morti e quali nascite hanno influenzato e cambiato la mia vita finora? Chi ho accolto, chi ho perso e a chi ho detto addio, e che cosa mi è accaduto nel processo?».

Le installazioni audio-video sono organizzate in otto semicerchi formati da sedie rivolte, per ogni gruppo, verso due schermi verticali (uno per ogni interlocutore o interlocutrice). Il pubblico può, così, decidere di sedersi e ascoltare in cuffia una sola coppia delle otto.

Le luci basse, i piccoli gruppi in ascolto, le voci in cuffia, le pause che ogni persona lascia all’altra mentre questa si racconta, gli sguardi con le altre persone di quello o di altri gruppi, fanno sì che l’esperienza sia di un’inaspettata e rara intimità. A fine spettacolo, per chi lo avesse desiderato, era previsto un momento di raccoglimento tra spettatori e spettatrici (in alcune repliche con la presenza dello stesso Staub) per condividere storie e riflessioni su quanto appena sentito.

L’intervista fatta a Sharon & Hlengiwe in Sud Africa è piena di dolore e di ottimismo, in egual misura. Le due donne si confrontano sulle morti e sulle nascite che hanno vissuto nelle loro vite. Una delle due, di origini indiane, parla di un figlio nato morto, del senso di colpa impartitole dalla famiglia, della sfiducia provata nei confronti del suo corpo. La condivisione di esperienze porta le due a condividere riflessioni condivise «il nostro corpo non è una macchina che sforna panini. Va celebrato, è un miracolo» e ancora «quando partorisci c’è qualcosa in te che muore», «a volte la rabbia è importante», «la povertà ti priva di una vita dignitosa», «la povertà non è una cosa normale con cui vivere», «la tua vita non dovrebbe essere determinata da dove sei nata», «c’è morte e morte: la morte non è uguale per tutti» e alla fine «le esperienze con la morte ci hanno insegnato a vivere, ci hanno fatto apprezzare la vita». La vita, si chiedono, la capiremo mai?

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