«Disperso che vuol dire? Che uno è vivo, oppure no? Nel mondo si vive o si muore, giusto?». Sono alcune delle domande che aprono lo spettacolo Lingua di cane di Giuseppe Cutino e Sabrina Petyx, andato in scena il 10 marzo 2018 all’ITC Teatro di San Lazzaro nell’ambito della sesta edizione di Interscenario. Il progetto, strettamente legato al Premio Scenario, presenta gli spettacoli vincitori dell’ultima edizione insieme alle nuove proposte delle compagnie vincitrici delle edizioni precedenti (nel 2003 la compagnia M’Arte – movimenti d’arte di Cutino/Petyx ha già vinto con lo spettacolo Come campi da arare).
Sono domande retoriche, quelle pronunciate dagli attori, spesso tautologiche, che non ricevono e non riceveranno mai nessuna risposta. Tre uomini e tre donne si trovano schierati in riga di fronte al pubblico, immersi in una luce blu che richiama il mare. Ricordano i condannati al di là dell’occhio vuoto dei fucili, ma forse il plotone di esecuzione stavolta non sparerà, non ce n’è bisogno, perché la loro condanna è l’oblio. I protagonisti di questa storia sono già morti, come i tanti invisibili che spariscono risucchiati tra le onde, granelli di sabbia spazzati via dalla corrente.
Lingua di cane non è uno spettacolo che parla soltanto delle vittime dell’emigrazione, di quelle 15 mila anime che dal 2014 a oggi sono state inghiottite da una striscia blu chiamata Mar Mediterraneo. Lingua di cane è un flusso di parole e riflessioni, quasi esistenziali, ricordi personali e suggestioni che si mescolano insieme, intrecciandosi con i corpi dei performer in scena. Il testo nasce da un lavoro di creazione collettiva, dall’esperienza di un gruppo di attori che condividono origini comuni ma percorsi differenti. Migranti anche loro, ciascuno a suo modo, sono stati richiamati a Enna, città natale, per conto della Compagnia dell’Arpa, che li ha coinvolti in una residenza artistica al Teatro Garibaldi. All’improvvisazione degli attori è seguita poi l’elaborazione drammaturgica di Sabrina Petyx e il lavoro di regia effettuato da Giuseppe Cutino.
In questo spettacolo la lingua si fa carne, la carne dei corpi, ma anche la carnalità di una lingua madre, materica e magari incomprensibile, viva e pulsante nel dialetto siciliano – più precisamente ennese – con cui spesso si esprimono gli attori in scena: Franz Cantalupo (ideatore del progetto), Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia e Rocco Rizzo (sostituito in questa replica da Salvatore Galati) sono delle “lingue di cane”, delle sogliole, come la Glyptocephalus cynoglossus, che vivono appiattite sui fondali. Ma come si può vivere in fondo al mare? Tra i personaggi c’è anche chi ha provato a respirare sott’acqua, ma non è bastato.
Nell’allestimento di Cutino l’uso del corpo assume un’importanza fondamentale, gli attori si fanno massa magmatica, si respingono, si trovano in una condizione di precario equilibrio, dove il disperato tentativo di restare a galla e la lunga apnea che fa bruciare i polmoni si trasformano in una danza sottomarina, la danza dei pesci; dove i mugolii rassegnati dei corpi ammassati su un barcone alla deriva creano una trama sonora, il vano tentativo di vincere la solitudine di un destino già segnato.
Da Purcell al Vivaldi ricomposto da Max Richter, la musica che accompagna lo spettacolo subisce virate improvvise e ci riporta nell’entroterra siciliano con la voce di Francesca Incudine. La scenografia è semplice, costituita unicamente da abiti dismessi, sparpagliati sulla scena come tanti corpi morti, i resti galleggianti di un relitto dopo un naufragio. Eppure la scena appare viva, si trasforma sotto gli occhi del pubblico. I vestiti diventano fagotti che simboleggiano la partenza ma non l’arrivo, o sacchi di sabbia utilizzati per arginare una falla. Vengono lanciati verso l’alto, nella speranza di raggiungere il cielo, perché in mare non c’è paradiso, in mare non c’è riposo e non si è più niente, perché «anche per morire ci vuole culo». Alla fine dello spettacolo gli indumenti si dispiegano in una vela, mentre una struttura di legno traccia con una linea la silhouette di una nave. Un disegno stilizzato e dondolante in moto perpetuo ne esprime il movimento, la navigazione lungo una rotta che non sempre vede un’altra riva.
L’illuminazione è essenziale ma efficace, il blu dei fondali marini all’occorrenza si tinge di rosso e l’elemento dell’acqua è sempre presente anche attraverso un gioco di riflessi creato dalle luci che danzano e rimbalzano contro le coperte isotermiche usate dagli attori. Queste compaiono dal nulla, si moltiplicano come per contagio e attraverso un sapiente uso degli oggetti e dei corpi in scena si fanno immagine e suono, ora onde del mare ora riparo e pioggia battente. Durante lo spettacolo i personaggi subiscono una progressiva svestizione che diventa svelamento: pesanti maglioni di lana, cappotti, giubbotti, scompaiono poco alla volta, quasi dissolti da una forza superiore. Gli attori rimangono in felpa, poi in maniche di camicia e alla fine anche questa si sbrindella, trasmuta, mostrando lembi di pelle: ancora una volta soltanto corpi.
Non esente da punte di ironia che strappano un sorriso, talvolta amaro, Lingua di caneavanza una riflessione su un tema delicato come quello delle morti in mare senza alcuna pretesa di agire sul pubblico, senza alcun tentativo di spingere a compassione lo spettatore. Attraverso l’abile uso di metafore la storia racconta la fragilità di alcune vite e la paura di scomparire, di una morte che morte non è, ma solo sparizione, come il novellame del pescato nel Mar Mediterraneo, quella che in Sicilia è conosciuta con l’appellativo di “neonata”, un nome che è già moltitudine indefinita, senza alcuna individuale identità, poiché basta una cucchiaiata a portarsi via chissà quante vite.
L'autore
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Laureato in Istituzioni di regia all'Università di Bologna, si interessa di arti performative e di critica teatrale. Collabora con Emilia Romagna Teatro Fondazione, affiancando all'attività di studioso quella di dramaturg.