È uno spettacolo elegante e coinvolgente il Pinocchio che il Teatro delle Apparizioni ha messo in scena a partire dalla riscrittura del drammaturgo francese Joël Pommerat, in scena al Piccolo Eliseo di Roma, nell’ambito del progetto Face à Face. Elegante e minimale è la scena, come ci ha ormai abituato questa formazione romana, anche se il registro di questo lavoro è per certi versi distante da quello solito della compagnia. Laddove nei precedenti spettacoli si era accompagnati quasi in punta di piedi, nel mondo di Pinocchio si entra trascinati dall’energia di uno straordinario Dario Garofalo, protagonista e narratore della pièce. E funambolesca e atletica è anche la recitazione degli altri personaggi dello spettacolo, perché la scelta del regista Fabrizio Pallara è quella di accostare Pinocchio, icona della fiaba italiana, alla commedia dell’arte, coprendo i volti degli attori con maschere in stile – ad eccezione della fata interpretata da Adonella Monaco.
La scelta non è peregrina, perché in fondo Pinocchio è oggi più che mai la maschera dei nostri tempi, e forse non più solo dell’italianità. La lettura che ne dà Pommerat va dritta in questa direzione, calcando l’accento su aspetto preciso: il “danaro”. Sono i soldi che mancano a Geppetto per comprare i libri di scuola a Pinocchio, e per questo il burattino si vergogna del padre che arriva a vendersi il cappotto pur di mandare il figlio a scuola; è per avere i soldi per entrare al circo che Pinocchio da via il libro; ed è per avere più soldi che cade nel ricatto del gatto e della volpe – gli eclettici e impeccabili Paola Calogero e Valerio Malorni. La fiaba di Collodi, pubblicata nel 1881, smette di colpo di essere una morale per i bambini che hanno poca voglia di studiare, perché davanti alla crisi economica senza fine apparente che stiamo vivendo, frutto di un trentennio cominciato negli anni Ottanta che ha scelto come propria religione l’euforia finanziaria dell’arricchimento facile, il monito di Geppetto – ««per fare soldi occorre lavorare, e per ottenere un buon lavoro occorre studiare» – può scioccare per quanto suoni allo stesso tempo lucido, semplice e anacronistico. Anacronistico perché è difficile oggi dire a un ricercatore universitario, a un precario, a un artista o a un giovane operaio, che lo studio serve davvero a trovare un buon lavoro, e che i soldi si fanno lavorando; e lucido perché il sisma economico e sociale che stiamo affrontando in questi anni non fa che suggerirci che quella sarebbe l’unica via d’uscita, anche se come il burattino in fuga dai doveri sono ancora in tanti a non voler sentire.
Quella di Pommerat è certamente una lettura politica – come lo fu il memorabile concept album di Edoardo Bennato del 1977, dove la metafora dei fili mossi dall’alto ci parlava di un potere allergico a chi sa pensare e agire con la propria testa (e anche oggi, guarda caso, è proprio chi lavora nel settore della conoscenza – ricerca scientifica, ricerca artistica, scuola – ad essere maggiormente sotto attacco). Ma Pallara inoltre ci aggiunge del suo, proponendo in questa versione bianco e nero di Pinocchio – come a voler racchiudere l’euforia dei truffaldini comprimari in uno scenario da incubo (complici i bei costumi di Laura Rhi-Sausi e le musiche oniriche di Valerio Vigliar) – un Lucignolo assai particolare, interpretato da una donna – un’effervescente Viviana Strambelli. Un piccolo spostamento in avanti nella lettura politica di Pommerat, perché senza la “seduzione” è impossibile comprendere come Pinocchio – eroe cialtrone, capriccioso ed egoista come tutti i bambini, ma essenzialmente di buon cuore – si lasci invischiare con tanta facilità nei tranelli che lo attendono lungo il cammino. E la seduzione di una vita facile, senza sforzo né impegno, dove l’unico orizzonte non è – attenzione – la felicità, bensì il divertimento, questa seduzione è il grimaldello con cui le armi di “distrazione di massa” inaugurate negli anni Ottanta hanno colpito il loro bersaglio, sono entrate nelle nostre menti e hanno cambiato le parole d’ordine del nostro vivere comune. In fondo era un meccanismo che anche Collodi, che scriveva quando l’Italia unita aveva appena vent’anni, doveva aver presente in qualche modo, perché è connesso in profondità con uno dei grandi nodi dell’animo umano: la scena di Geppetto e Pinocchio nella pancia della Balena, come si sa, è un calco del mito biblico di Giona, dove il fulcro del racconto risiede nella mancata assunzione di responsabilità da parte del profeta.
È strano notare come la meravigliosa tirata d’orecchi che Collodi dedicò ai bambini svogliati 130 trent’anni fa perda oggi – in piena era post-ogni-cosa, dove tutto è già stato ribaltato mille volte – ogni accento di tromboneria per disegnarsi come una verità (ah, la verità per Pinocchio…) semplice e lucida. Forse perché la fiaba del burattino di legno ha una sua morale ma non è moralista, perché ha una sua etica da esporre. O forse perché siamo noi, 130 anni dopo, ed essere diventati tanti “pinocchi desideranti”, ad essere cioè, più di un tempo, bambini viziati che non sanno ammettere di esser tali.
di Graziano Graziani
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.