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Pietro Babina: un ritratto

di Lucia Oliva

Pietro Babina nasce come attore, con un diploma all’accademia, ma si avventura fin da subito nei territori della regia e dell’invenzione formale, abbracciando la scena nei suoi molteplici aspetti, costruendo scenografie e interventi video, occupandosi di musica e di parola, di fantasmi e di carne. In questo incontro si cerca di mettere in luce alcune delle questioni affrontate dal regista nella sua carriera “solista”, intrapresa dopo aver concluso il lungo viaggio con il Teatrino Clandestino.

Per disegnare la tua figura di artista e il tuo percorso nell’ambito teatrale mi piacerebbe incominciare dagli inizi, perché le vocazioni a teatro sono importanti. Come è nato questo amore per il teatro?

Posso supporre che ci siano degli episodi nella mia biografia che abbiano avuto a che fare con questa scelta, e che in realtà mi abbiano messo subito in connessione con diversi ambiti dell’agire artistico. In piazza San Francesco c’era, ai tempi della mia infanzia, un piccolo negozio che vendeva giocattoli prodotti nella Germania dell’Est, tra cui questi burattini molto belli, con la testa in legno. Mia madre me ne regalò due: già da tempo nutrivo una passione per i burattini e ogni sabato mattina i miei genitori mi portavano a vedere gli spettacoli per bambini dei fratelli Presini, nel sottopassaggio di piazza Maggiore. Si scatenò in me una vera e propria fissazione e mio padre mi costruì un teatrino in legno, che ho ancora. Mi misi a inventare piccoli spettacoli spesso, totalmente campati per aria. Mi ricordo che, durante una festa di compleanno, imposi agli altri bambini di assistere a un mio spettacolo e questi iniziarono a tirarmi delle castagne addosso perché volevano riprendere a giocare. Io ovviamente me la presi tantissimo, perché la mia era diventata una passione divorante. Poi, più avanti, mia madre iniziò a portarmi a teatro,  luogo che fin da subito mi affascinò: le luci, le scenografie… credo che l’idea di fare l’attore sia nata allora durante i primi spettacoli che vidi da bambino.
Durante l’adolescenza ho tentato diverse strade: la musica, per esempio, una mia grande passione, ma il progetto non funzionò perché alla fine, tra chi si drogava da una parte e chi decideva di studiare economia e commercio dall’altra, si sfaldò tutto. Già ai tempi ero una persona determinata, volevo cioè fare le cose fino in fondo e non riuscivo a trovare altri con la mia stessa attitudine. A un certo punto mi isolai rispetto alle mie frequentazioni dell’epoca e presi la decisione di iscrivermi all’accademia. A Bologna mi era capitato di incrociare alcuni grandi personaggi della scena teatrale: Leo de Berardinis ovviamente, Carmelo Bene che era passato al Testoni… con loro accadeva come una magia, avveniva uno “spostamento” sulla scena che mi incantava. Frequentai così l’accademia, lavorando e pagandomela da solo perché i miei non mi sostenevano in questa scelta. Una volta finito il percorso di studi mi sono però scontrato con una “mentalità” del tempo che non mi piaceva. Erano gli anni ’80 e si sperimentava il boom del video: molti attori ripetevano che quella fosse l’unica via per il futuro, che il teatro era ormai morto… io non credevo affatto che il teatro fosse morto e decisi quindi di fondare un gruppo, con alcuni amici dell’accademia. Di lì a pochissimo ci siamo dati il nome di Teatrino Clandestino e tutto è cominciato davvero.

Forse è interessante raccontare come è nato questo nome…

All’epoca a Bologna non c’era alcuna possibilità per un gruppo come il nostro di trovare una sala o un posto in cui provare. Senza voler entrare in polemica: allora non c’era alcuna politica così mirata ai giovani oggi, che cercasse di sostenere e assecondare esperienze nuove. Un giorno, mentre giravo in vespa, mi accorsi di una fabbrica di scatolame abbandonata in via Fiovaravanti, proprio di fronte a dove sarebbe successivamente sorto il Link. Su di essa, un grosso cartellone che parlava di un’occupazione della fabbrica. Entrai e iniziai a parlare con gli occupanti, con i quali mi accordai per poter utilizzare una stanzetta della struttura. Dopo 4 giorni di lavoro per pulire e rendere operativo lo spazio, ci trovammo a dovergli dare un nome. Pensando all’occupazione, d’istinto, presi un pennarello e scrissi sulla porta: “Teatrino – era uno spazio veramente piccolo – clandestino”. Il giorno dopo, siamo tornati per la nostra prima prova e abbiamo trovato un cordone di carabinieri che lo stava sgomberando. L’unica cosa che ci è rimasta è dunque il nome. Così lo abbiamo tenuto nel tempo.

Quella del Teatrino Clandestino è stata un’avventura durata vent’anni. Un’avventura complessa, stratificata, intensa per tutti i partecipanti. Ha attraversato diversi territori linguistici e diverse forme sceniche, creando un vortice fra video e presenza fisica, con un occhio all’innovazione e sperimentazione ma anche alla poesia. Ma non è questa la storia che vorrei raccontare oggi. Preferisco fare un passo indietro: hai nominato varie figure del teatro italiano, una in particolare, fondamentale, che è quella di Leo…

Io non ho mai lavorato con Leo. Andavo sempre ai suoi spettacoli e a Bologna all’epoca spesso capitava di incontrarlo per strada. Ecco, era un figura che aveva un po’ una “doppia presenza”: quella enorme, sul palco e poi anche una dimensione più quotidiana, se vuoi un po’ provinciale, attraverso la quale lo sentivi “tuo”. Ma il mio rapporto con lui è stato sempre a distanza. Una volta però, durante gli anni dell’accademia, Eugenio Ravo invitò Leo a tenere un laboratorio nel primissimo luogo occupato di Bologna che si chiamava “Fabbrika” e io partecipai. Al tempo possedevo uno dei primi registratori audio di una certa qualità, e gli chiesi il permesso di registrare una testimonianza del laboratorio. Mi “dimenticai” per lungo tempo di questo nastro, che rimase in mezzo a tutti gli altri, sopravvivendo non si sa come a mille traslochi ecc. L’ho ritrovato tempo fa mentre lavoravo al Candide, dove c’era questo finale in cui stendevamo tutte le mie audio cassette e ricreavamo un tappeto fatto praticamente di tutto il mio immaginario sonoro. Da quel momento lo tengo sempre sul mio comodino, senza avere però il coraggio di riascoltarlo. È diventato una sorta di mio “feticcio”. Potrebbe essere ormai smagnetizzato, chissà…

Hai citato Candide, l’ultimo atto del “tuo” Teatrino Clandestino: uno spettacolo particolare, uno spazio aperto dove la scena si compone assieme alla musica, era infatti con te il musicista Alberto Fiori. Una sorta di forma paradossale e atipica sia di performance che di concerto, dove lo spazio proliferava insieme alla musica e all’evoluzione di questo personaggio, Candide.

Posso dire che in un certo senso è stato il mio unico spettacolo autobiografico. Quando lessi Candide mi identificai fortemente nel suo percorso, nel suo essere cacciato dal castello e nel conseguente “perdersi nel mondo” che è una delle grandi metafore del testo. Quindi ho pensato di ricostruire il viaggio esperienziale di Candide proprio perché la sua vicenda mi si addiceva molto, soprattutto nel messaggio finale sulla necessità di “coltivare il proprio giardino”. Dopo grandi avventure, dopo imprese idealistiche di grande respiro, dopo aver intrapreso mille guerre e progetti, dopo essere stati schiacciati e pestati, si arriva a un punto della vita in cui ne hai prese a sufficienza da prendere delle decisioni, anche artisticamente.
In quell’occasione feci per la prima volta un lavoro assolutamente senza parole e la musica non era soltanto uno strumento per sostenere questa scelta estetica. La centralità della musica in Candide deriva anche dalla centralità che essa ha rivestito nella mia vita. Il teatro è sempre stato come una vocazione “metafisica”, che ti trovi lì anche se non sai di averla, ma la musica è il grande amore che mi ha sempre accompagnato. Per lo spettacolo ho ripreso in mano gli strumenti dopo tantissimo tempo ed è nata un’intensa esperienza di sala prove con Alberto per comporre, registrare e poi costruire il lavoro.
Inoltre, con Candide c’era la volontà di voler esprimere una posizione ferma, una sorta di presa di coscienza anche politica su un mondo che stava cambiando e che pertanto rendeva inesorabilmente chiuse certe esperienze, comprese quelle teatrali. Dal punto di vista del mio percorso personale, Candide ha significato questo: esprimere la consapevolezza che, per me, un certo modo di fare teatro non poteva più ripetersi. E quindi, per amore e per forza, occorreva cercare nuove modalità di azione, anche artistica. L’unica cosa che sapevo di sicuro era questo: che volevo fare teatro. In seguito ho deciso di staccarmi dal Teatrino Clandestino e tentare nuove esperienze, come il progetto Eco che è stato un momento di ricerca assolutamente “mio”, se vogliamo allo stesso tempo il più aperto ma anche il più chiuso di tutti.

Eco è un progetto molto complicato e stratificato. Forse non tutti ne conoscono ogni aspetto, se puoi darci qualche elemento in più…

Si tratta di un progetto molto complesso sotto tante sfaccettature. Parte dall’istanza di voler indagare il modo in cui i nuovi media influenzano il nostro linguaggio e come invece noi, persone di teatro, potremmo a nostra volta influenzare il mondo della comunicazione e dei social. Si tratta di una posizione molto idealistica, chiaramente, tuttavia ho sempre pensato che in teatro tu non possa semplicemente riproporre ciò che già accade nella realtà, per quanto il nostro mestiere si basi sull’essere ricettivi al massimo, sull’essere un po’ delle “spugne”. Occorre al contrario guardare alla realtà per restituirne uno sguardo critico, propositivo.
Gli anni di Eco sono gli anni in cui Facebook iniziava a diventare sempre più popolare, dal 2010 al 2014, sono gli anni dell’esplosione dei social network e della connettività. Noi eravamo rinchiusi in una soffitta a Casalecchio a lavorare sui contenuti e sulle modalità di ricerca, ma tutto questo processo era registrato, documentato e trasmesso in diretta streaming. Per questo dico “il progetto più chiuso e insieme il più aperto” di tutti: la sala prove era “blindata”, nessuno poteva accedervi se non apparteneva al gruppo di lavoro ma il tutto era trasmesso in streaming e tutte le fasi del lavoro erano “in chiaro”, chiunque poteva accedere al materiale scritto, alla visone delle prove, al retroscena… avevamo reso completamente accessibile la vita di questo gruppo di teatro.
Da questa miscela di vita vissuta, di racconto in diretta delle prove e di ciò che noi cercavamo di creare per la messa in scena è nato un copione che si sarebbe dovuto rappresentare grazie a un finanziamento del Ministero. Ci fu però una marcia indietro da parte di quest’ultimo e quindi non si arrivò mai a mettere in scena il testo, operazione che per me era il perno dell’intero progetto. Volevo infatti capire che cosa avrebbe spostato dal punto di vista del risultato finale la possibilità, offerta dalle nuove tecnologie, di condividere l’intero processo di creazione col pubblico. Ma non pensavo in alcun modo che il valore e il fine ultimo del progetto risiedesse in tale condivisione, nel processo: il mio interesse era comunque l’opera. Purtroppo non siamo riusciti a giungere a questo stadio finale della rappresentazione su un palco. Rileggendo ora il testo, mi accorgo di come ci siano elementi folli, forse azzardati, ma questo in qualche modo mi piace e credo che sia dovuto anche a una mia tendenza a costruire “prototipi” piuttosto che macchine perfettamente funzionanti.

Con questo progetto ti circondi di molti collaboratori, creando la “Mesmer Artistic Association”. Collaboratori che in una certa misura ridefiniscono continuamente l’identità e le caratteristiche del gruppo, spostandolo da finalità propriamente sceniche verso altri ambiti…

Non volevo in alcun modo che si ricreasse una compagnia, non volevo che si ripetesse quel meccanismo. Non volevo, insomma, semplicemente cambiare le persone attorno a me ma avevo bisogno di andare verso altre direzioni. La “Mesmer Artistic Association” si configura perciò fin da subito come una struttura aperta, con l’intenzione di lasciare disponibile tale contenitore anche ad altri artisti che avessero voluto sviluppare progetti differenti. Però, anche se ho cercato di sottrarmi, la mia figura è diventata un po’ il punto attorno al quale tutto il collettivo ha iniziato a orientarsi. Sotto questo aspetto non sono riuscito ad accogliere veramente altri progetti, lasciandoli sviluppare in maniera totalmente indipendente. A ogni modo, l’associazione esiste ancora e me ne servo nel momento in cui sento l’esigenza di intraprendere percorsi che non siano strettamente teatrali.
Si tratta di un discorso in cui entrano in gioco anche considerazione molto pratiche. Mi spiego meglio: in un percorso come il mio, uno dei modi per andare avanti potrebbe essere quello di diventare direttore di qualche struttura, tendere cioè a rivestire un ruolo pubblico e istituzionale che ti permette a lato di continuare il tuo lavoro. Io non ho mai voluto battere questa strada e penso che mai lo vorrò, anche perché sono consapevole che potrei causare grossi danni. Per cui ho cercato un modo per restare comunque “dentro” le strutture teatrali occupandomi però solo della parte artistica. Anche per questo ho sentito l’esperienza della compagnia come conclusa, perché era una struttura che non mi corrispondeva più e che, a mio modo di vedere, non corrispondeva neanche più a un modo libero di fare il teatro. Al di là delle qualità singole o di gruppo, nel momento in cui la nostra attività ha iniziato a essere seguita anche da diversi osservatori esterni, si sono create delle prospettive culturali completamente mutate rispetto a prima. La mia percezione è che fosse diventato più importante entrare e raggiungere determinati posti invece che svolgere il proprio lavoro, occuparsi dello spettacolo per lo spettacolo, come accadeva all’inizio. Il riscontro altrui, insomma, stava diventato quasi la condizione necessaria affinché anche noi stessi riconoscessimo l’artisticità del nostro lavoro. Quando si innesca un meccanismo di questo genere, si entra in un’ottica per cui tu cerchi di capire in primo luogo che cosa quel contenitore voglia da te.
Ecco, io cercavo di scappare in tutti i modi da questa pressione perché la percepivo come pericolosa. Ho cercato dunque di costruirmi situazioni attraverso cui prendermi il tempo e la libertà di agire secondo la mia natura artistica e, così facendo, se prima ero “di nicchia”, ora ci sono letteralmente entrato in una nicchia! Ma si tratta di una nicchia protettiva che mi permette di confrontarmi profondamente con l’opera, cosa che ritengo il momento basilare di ogni agire artistico.

Nel tuo caso questo confronto con l’opera avviene a più dimensioni: dalla regia alla scenografia alla musica. In un certo senso ti “sporchi le mani” per creare tutta la forma scenica dei tuoi spettacoli. Si tratta di una visione della regia a 360 gradi, una dimensione del fare completa che coinvolge anche gli oggetti di scena e la loro portata evocativa. Un connubio totale fra sapienza artistica e artigianale: mi dicevi che il tuo pensatoio è il laboratorio. Infatti, quando ti ho proposto di portare a questo incontro un oggetto che simboleggiasse il tuo mondo, tu volevi arrivare con un saldatore!

Volevo portare il saldatore, ma poi abbiamo deciso che in treno non era il caso! Il saldatore è stato un oggetto veramente mitologico negli anni Novanta, i ragazzi “fighi” che stavano nei centri sociali dovevano saper saldare, mi ricordo infinite discussioni su come fare una saldatura o come migliorare la tecnica. In realtà saper lavorare il ferro è qualcosa che mi ha sempre interessato, non solo perché a quei tempi era considerato il materiale principe. Non mi considero un intellettuale: sono una persona che legge, che pensa, ma faccio fatica a stare dietro a una scrivania. La dimensione puramente artigianale è stata sempre presente nella mia personalità artistica. Molti dei miei spettacoli sono stati concepiti mentre costruivo gli oggetti che avremmo utilizzato in scena. Spesso era l’oggetto a diventare il nucleo centrale dello spettacolo stesso. Per esempio, nell’affrontare La tempesta di Shakespeare, siamo partiti da una sorta di “fissazione” nel considerare tutto ciò che si trovasse sul palco come personaggio, quindi anche gli oggetti. Gli attori avrebbero dovuto recitare insieme agli oggetti, perciò avevo costruito dei carrelli elettrificati che permettessero sia agli attori che agli oggetti di entrare e uscire di scena.
Il culmine di questa concezione è L’Idealista Magico, per cui ho progettato e realizzato una macchina di Wimshurst per produrre energia elettrostatica dopo averne scovata una in un laboratorio di un restauratore di macchinari scientifici di Bologna (mentre cercavo un motore a vapore, tra l’altro). Ho impiegato cinque mesi per portare a termine il lavoro ma alla fine la macchina era talmente “carismatica” che tutto lo spettacolo si imperniò sulla sua presenza in scena. L’andamento de L’Idealista Magico, infatti, ricalca la procedura di dimostrazione dell’esistenza dell’energia elettrostatica, un tipo di energia che assume per me una connotazione quasi “metafisica”, perché ci sprofonda in una sovrapposizione fra la spiegazione del mondo magica e quella scientifica: ha una chiara ragione scientifica ma la sua manifestazione è magica, ricorda un gioco di prestigio.

Parliamo ora del rapporto fra un’attitudine di ricerca come la tua e un teatro più istituzionale: quello che un tempo era un mondo lontano oggi viene invece frequentato senza alcuna necessità di cesura o distinzione. Vorrei ricordare un tuo spettacolo di qualche tempo fa, La leggenda del grande Inquisitore, in cui questa commistione è avvenuta  grazie alla partecipazione di Umberto Orsini, e a questo proposito c’è una piccola sorpresa… [dalla regia viene trasmessa una telefonata registrata a Orsini, in cui l’attore parla della sua collaborazione con il regista]

Ah, Umberto… che bellissimo incontro! Ho sempre frequentato il teatro di tradizione, di prosa, ma anche quello di ricerca, andavo a vedere Leo. Mi ricordo che, seguendo uno dei fondatori del Teatrino Clandestino, Manuel Marcuccio, arrivai per la prima volta al festival di Santarcangelo. Quello fu il mio vero incontro con quel tipo di scena e da lì ho incominciato a interessarmene maggiormente, parlando con i protagonisti, creando dei contatti, eccetera. Mi resi anche conto che noi del Teatrino Clandestino eravamo delle mosche bianche rispetto a quel mondo, perché venivamo dall’accademia e credevamo dunque nel valore di un certo tipo di impostazione o in certi elementi che derivavano dalla nostra formazione.
Credo che la definizione di teatro “di ricerca”, che è poi una definizione ministeriale per questioni di finanziamento, non vada intesa in senso rigido. Ho sempre assistito anche a spettacoli più tradizionali, diversi da quelli che facevo io, anche perché l’”Arte” è “ricerca”, altrimenti non stai facendo un’operazione artistica. E questo vale in tutti gli ambiti. Tant’è vero che esistono spettacoli che possiedono solo un’estetica di ricerca, ma poi dentro di ricerca non ce n’è. Alcuni artisti hanno la tendenza a mettere in crisi costantemente il mezzo che utilizzano, altri invece si innamorano di alcune forme prestabilite e non sentono alcuna spinta di rottura. Ho sempre applicato questa distinzione, piuttosto che quella tra ricerca e tradizione.
Tornando all’esperienza con Umberto, la collaborazione è stata casuale. L’ha proposta Pietro Valenti in modo un po’ provocatorio, ma fin dal primo momento siamo entrati in sintonia perché Umberto è, come me, un “fissato della scena”. Le discussioni su come migliorare gli spettacoli sono interminabili!

La leggenda del grande Inquisitore è stato etichettato come un approdo alla prosa. Tuttavia a me sembra che tale approdo fosse tra le righe da diverso tempo, anche perché con il Teatrino Clandestino avevate rivisto molti testi del repertorio classico-drammatico…

Sono d’accordo, infatti non ho mai capito bene questa cosa. La capisco da un punto di vista delle etichettature e mi sembra anche un’operazione un filo maliziosa. Si cerca sempre, per quelli che hanno battuto un certo percorso, di leggere in modo negativo a priori ciò che invece può rappresentare un’apertura. L’avanzamento di un discorso artistico dev’essere poi assorbito da tutto un contesto più ampio, altrimenti resta uno stilema personale che nessun altro può utilizzare.
In realtà, come è successo nel corso dei secoli per la musica o la letteratura, influenzarsi gli uni gli altri, pesantemente, anche al limite del realizzare opere e percorsi quasi identici, è una cosa sana che è giusto che accada. La dialettica con le opere dovrebbe essere proprio un continuo prendere e rilanciare quello che più ci ha convinti. Tutta la musica classica e pop ha fatto questo senza alcun pudore. Invece, e questo mi sembra un limite della scena contemporanea, spesso si vanno a vedere gli spettacoli cercando di capire come evitare di replicare ciò a cui si è assistito, come realizzare qualcosa di completamente diverso. Ciò significa entrare in una scatola da cui è però difficile uscire. C’è l’ossessione per l’originalità, che alla lunga diventa una gabbia: ognuno si crea la propria identità artistica e, per non intaccarla assimilando esperienze esterne, è costretto a ripetere sempre la stessa cosa. Secondo me un artista dev’essere fluido, deve sporcarsi, contaminarsi e, quando serve, essere capace di tornare indietro e cambiare completamente stile. Credo che le congiunzioni in cui mi trovo adesso, vale a dire le collaborazioni con figure apparentemente distanti dalla mia poetica, non siano un punto d’arrivo bensì un inizio: significa che sto intraprendendo un nuovo percorso.

Ti vediamo in scena in questi giorni con Ritter, Dene, Voss, un testo di Thomas Bernhard che appartiene in pieno alla tradizione drammatica, seppure questo autore sia stato riscoperto solo recentemente. Come mai Bernhard? E perché la decisione di lasciare integro il testo, senza operare alcun taglio drammaturgico?

Vedo l’approccio al testo un po’ come un insieme di scelte per manipolare o per lasciarsi manipolare dall’opera: se applichi delle modifiche è perché senti che in quel punto hai bisogno di non farti manipolare. Al contrario, io ho deciso di lasciarmi trasportare totalmente dal testo. Volevo un po’ rivivere la sensazione che ho vissuto con una delle primissime messe in scena di Teatrino Clandestino: A porte chiuse di Sartre. Anche in quell’occasione non avevamo toccato il testo e abbiamo cercato di lasciarci attraversare da esso. Per me è stata come una prova: è lì che ho capito che potevo fare il regista.
Con questo spettacolo si è innescato in parte lo stesso meccanismo: ho sentito l’esigenza di mettermi nuovamente alla prova per capire se fossi in grado di agire la mia idea di regia rimanendo fedele al testo. Credo che l’arte richiami ogni tanto tale necessità: è pericoloso avere la presunzione di poter imparare una volta per tutte. Sono punti di crisi nel mio lavoro in cui torno a confrontarmi con ciò che di più classico non può esserci, perché è lì che risiede la dialettica profonda con la tua disciplina, dopodiché poi magari ricomincio a smontare, decostruire, ma solo dopo essermi messo al servizio del testo.
L’atteggiamento per cui si rifiuta radicalmente la parola, il personaggio, eccetera per me non ha senso: credo che tutto sia potenzialmente materiale da utilizzare. Io so che voglio lavorare nell’ambito della rappresentazione e non in quello della verità, voglio lavorare con attori e non con dei performer. Questa è la mia scelta e ciò significa anche andare a fondo a questioni metodologiche: il rapporto fra ciò che viene definito regista oggi e gli attori. La loro presenza sul palco, per esempio, che è un tema che mi assilla.

Ho ascoltato dei frammenti delle prove e ho notato come la terminologia che utilizzi sia squisitamente musicale e rimandi a una concezione dello spettacolo come partitura: parli infatti di orchestrazione, di accordatura. E ciò mi sembra in stretta correlazione con un altro aneddoto: nel cercare di creare l’intesa tra i tuoi tre attori hai iniziato regalandogli propri degli strumenti musicali.

La mia esperienza come musicista mi insegna che avere uno strumento per le mani e stare in una stanza con altri che fanno lo stesso ti porta a dover dialogare. Sposta alcuni dei tuoi equilibri. Siamo abituati a utilizzare come mezzo di comunicazione sempre le parole e diamo per scontato di saper ascoltare, ma non è vero. Credo che il teatro sia una dimensione molto musicale: occorre essere accordati, trovarsi in sintonia l’uno con l’altro, occorre veramente saper far suonare la scena. Così, come esercizio un po’ folle, mi è venuto in mente di provare a far suonare gli attori. Proprio perché costituiva un’esperienza nuova per loro, rimetteva in discussione sia la dimensione dell’emettere suoni, cioè del pronunciare parole, sia la dimensione dell’ascoltare. Farlo attraverso uno strumento di cui non sei padrone ti riporta al nucleo originario di questi due livelli e ti insegna anche a riconoscere insieme quando sta avvenendo qualcosa, ad accorgersi all’unisono di aver intrapreso la direzione giusta, per quanto sgangherata ed embrionale possa apparire in un primo momento.

Rispetto a questo spettacolo come sei arrivato a pensare la scenografia?

Sono partito dalla questione dell’interrogazione. Questo testo, seppure scritto in una forma assertiva, contiene delle grandi domande, continua ad aprirsi su dimensioni diverse. Volevo dunque che nella scena ci fossero elementi interrogativi ed emblematici, piuttosto che esplicitativi o didascalici. Non volevo spiegare nulla, insomma, ma aprire la verità di una domanda. Le forme così semplici e lineari che ho scelto [in scena ci sono due oggetti dalla forma di grossi quarzi o cristalli, di colori fluo e sgargianti, che appaiono come due monoliti, uno orizzontale e uno verticale, NdR] vorrebbero mettere in luce una domanda senza però rispondere mai. Infatti, a un certo punto, il monolite orizzontale può essere di tutto: una tavola, un grande pezzo di carne, la lancetta di un orologio, un catafalco… può assumere tante identità, ma nessuna in maniera univoca.
Questa è stata l’intuizione di partenza, dopodiché mi sono lasciato influenzare dal lavoro di altri artisti, in particolare quello di Franz West. Lui realizza oggetti che introduce in contesti naturali, senza però cercare di amalgamarli, anzi, creando una contrapposizione netta tra l’oggetto e l’ambiente. Questo loro essere fuori luogo è talmente potente a livello visivo che ti spinge subito a interrogarti, da un punto di vista metafisico, riguardo alla struttura del mondo, a come esso è organizzato. I colori invece rimandano a elementi primordiali della Natura, sono una sorta di cosmologia: il rosa del tavolo ricorda la Carne, l’animale il monolite dritto e verticale rimanda al mondo vegetale, il lampadario evoca, ricorda una nuvola che richiama il cielo mentre le botole nel pavimento aprono sul sottosuolo, su quei motori primordiali e ribollenti nelle profondità del nostro mondo. Volevo dunque che la scenografia avesse qualcosa di cosmologico. Se vogliamo, questa scenografia ha un’ascendenza rinascimentale.

La conversazione qui riportata è stata raccolta in occasione dell’incontro pubblico al teatro Arena del Sole di Bologna nel ciclo “Ritratti” di Altre Velocità, tenutosi il 19 gennaio 2016 e condotto da Lucia Oliva. Articolo pubblicato il 3 aprile 2016.

fotografia di Luca Del Pia

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