l mostriciattolo di Puzzle Bubble cammina sulle rive di un fiume e incontra altri animali che gli parlano, per introdurlo alla sfida. Bisogna lanciare delle bolle colorate su un muro che gradualmente si abbassa, minacciando di schiacciare i concorrenti. Creando file di tre o più elementi, le bolle svaniscono, e chi riesce ad averne meno è in vantaggio rispetto all’avversario. Quel mostriciattolo siamo noi, è il nostro avatar. Solo che in periodonero non abbiamo nessun joystick, possiamo solo osservare, e per giunta non ci sono colori perché tutto lo schermo è in bianco e nero. Esiste una “regola del gioco” in queste condizioni? E chi è il nostro avversario? Dopo tale prologo, che accade mentre prendiamo posto in sala, periodonero ci mostra un percorso di formazione e di crescita, in cui sottotraccia ribolle la stessa sfumata inquietudine, la stessa domanda che s’interroga sull’esistenza dell'”altro”. Se l’altro non c’è, a mancare è probabilmente anche un conflitto, un combattimento, o almeno di questi vanno rivisti i termini. S’inizia con una schiera di figure umane proiettate sullo schermo, che assomigliano a ombre pur essendo formazioni di luce scura. Fanno esercizi ginnici e stretching, si preparano a una performance. Insieme a loro vediamo una presenza umana, quasi indistinguibile dalle immagini, della quale siamo però in grado di avvertire la grana “reale”, quella di una vera ombra, di un corpo che ostruisce la luce del proiettore (e leva luce alle proiezioni) e così si disegna sullo schermo. Da qui inizia il combattimento, messo in atto contro i propri simili dunque, anche se non siamo certi che si tratti di una lotta, e nemmeno di un dialogo o di una relazione. Eppure, un senso di non allineamento e di “differenza” aleggia fin dalla prima sequenza. L’ombra a un certo punto smette di esercitarsi, s’incunea fra le sagome ed esce, per tornare “dal vivo” di fronte a noi. E’ una donna vestita di nero, una figura dark, sicuramente “post-punk”, con lunghi capelli scuri. Poco prima di iniziare gli esercizi aveva lanciato una palla da bowling, che subito era transitata “doppiata” anche sullo schermo. La ragazza quindi gioca, sceglie un bersaglio e lancia, mentre al centro si proietta un tondo di luce e ripetutamente si spegne appena la donna si avvicina per occuparlo. Le sagome ginniche sono intanto state sterminate da un plotone di spari, e la ragazza forse ci ripensa, va dietro allo schermo e ne riporta una silhouette nera, un cadavere virtuale che di fronte a noi diventa spenta sagoma bidimensionale.
I Cosmesi sono un gruppo che mette al centro l’immaginazione di strutture solide, la costruzione di architetture che in sè si fanno racconto drammaturgico: dal palo eolico della Primadonna alla tenso/turbina de Lo sfarzo nella tempesta, solo per citare due recenti esempi. Cosa accade in periodonero? Perché tutto sembra qui essersi volatilizzato, polimerizzato, per lasciare campo al disegno “illustrato” digitale? Il punto è che forse quelle strutture sono state fagocitate dalla realtà, da una realtà talmente indistinguibile rispetto all’universo mediale al punto da averla superata, inclusa, inglobata. Un realtà che non può non far pensare anche a un sistema teatrale modaiolo, che si diverte a glorificare e abbandonare, attratto solo dalle superfici, dalle apparenze, dalle “alte definizioni” delle confezioni. Restano dunque le ombre, forse le uniche a poterci salvare eppure così simili alle copie e sempre sull’orlo della contraffazione.
Come nei quadri di Magritte, Cosmesi “pensa per immagini”, depurandole da strutture concettuali, liberandole da un vincolo con la realtà divenuto oppressivo. La ragazza, dopo avere protestato contro il faro e avere creato solo per questo proseliti e crocchi acclamanti, decide di tornare dalla parte dell’ombra e innalza un cerchio dal quale passano animali di varia fattura, da gatti a uccellini, fino a una Moby Dick che spruzza acqua. E’ una sorta di imagoturga, con tanto di musichetta circense, è una figura che s’abbandona all’illusione, ne produce incessantemente di nuova, e forse quella marcetta musicale un po’ irridente proviene direttamente dai nostri sguardi. La sua stessa ombra è pronta però a generare un mostro, che si prolunga dall’assenza di luce per diventare un ammasso di pixel neri, un animale feroce che come le proiezioni espressioniste si allunga dai corpi e minaccia. Poco dopo, delle mosche intorno a un lampadario gradualmente occupano tutta la superficie, coprendo tutto. Anche gli animali prima generati soccombono, si gettano “al di qua dello specchio” come se volessero uscire dalle immagini stesse, sbattendo inesorabilmente contro un muro tanto diafano quanto spesso. Se di combattimento allora si tratta, occorrerà per prima cosa decidere chi vogliamo essere, se l’ombra o la sua copia, poi inventare un avversario per rifare e condividere una regola. Infine difendere i residui di realtà non compromessa che ci restano, che qui sembrano comunque stare sotto, sembrano essersi camuffati e inabissati sotto all’apparenza, o sotto alla “trasparenza”, per dirla con Baudrillard. Cosmesi su questo forse non si sbilancia, ma comunque ci indica che qualunque sia il nostro posto nel mondo è indispensabile restare appigliati alle nostre “bolle”, come la ragazza che torna di fronte a noi e non più mediata viene guidata da un gruppo di palloncini.
Credere in queste Bubble, e usarle come lanterne: mentre lo schermo prende la parola, proiettando aggettivi e sostantivi (televisione, pecore, semplice, epoca, vorace, giovani, privilegio, singoli, furbi, permanente, in un font della famiglia Gothic, con rivoli neri che gocciolano e si cancellano, come sangue o pastosa morcia pronti a contaminarci, a sporcarci, a bloccarci sotto il peso e il senso dei concetti), Eva Geatti inizia ad assemblare serpertine di cavi elettrici, che sono lunghi, sono troppi, sono tortuosi. Solo per accendere una scritta luminosa, che infine ci dice “fatto”. Fatto. Verrebbe da ripeterlo tante volte, fatto nonostante tutto, fatto ancora una volta, fatto cercando spiragli di sole per le nostre ombre, fatto fidandosi solo di noi stessi, fatto dopo dialoghi estenuanti, ricerche a tentoni, abbandoni dolorosi. Fatto, fatto.
(foto di Laura Arlotti)
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.