Due ragazze adolescenti scorgono tra la folla un loro idolo del passato. Lo chiamano il «detective dell’impossibile» e la nostra immaginazione corre alle figure dei fumetti Bonelli, pensiamo a incubi, a mostri, a casi da risolvere e grattacapi. Le due ragazze cercano la sua attenzione, ma “Dylan” si butta sotto la metropolitana, suicidandosi. Basterebbe questo incipit per consigliare la visione di Cinque allegri ragazzi morti, anche solo per misurare il nostro sguardo di fronte a una storia di adolescenti alle prese con una fine, quella del loro idolo, ma anche dei sogni, forse dell’immaginazione stessa. In Cinque allegri ragazzi morti le temperature del fumetto e della musica cosiddetta indipendente si fondono in un ibrido che conserva tracce dei linguaggi di partenza, creando qualcosa di autonomo. Cinque allegri ragazzi morti è uno spettacolo prodotto da Pubblico Teatro (Elena Arcuri e Eleonora Pippo, anche regista), con le musiche dei Tre allegri ragazzi morti (con Davide Toffolo in scena, che è anche l’autore dell’omonimo fumetto pubblicato a puntate negli anni ’90) e con Mimosa Campironi, Libero Stelluti, Matteo Vignati, Francesca Agostini, tutti abilissimi nell’alternarsi fra canzoni, battute dei rispettivi personaggi e recitativo da opera indie. Si autodefinisce “musical lo-fi”: lo spazio è quasi vuoto, le musiche sono eseguite dalle attrici e dagli attori con una tastiera, una clavietta, una chitarra classica non amplificata e una elettrica con amplificatore da saletta prove; non ci sono microfoni, le luci sono sempre accese, il pubblico assiste in platea ma anche seduto attorno all’azione (nella replica da noi vista a “Pubblico”, teatro di Casalecchio di Reno). Lo-fi, dunque, come condizione d’esistenza del discorso, una necessità di dire che viene prima della cura della confezione. Dopo il suicidio, la trama del fumetto prende quota: entra nello spazio un fantomatico addetto al recupero del cadavere, che scopriremo essere parte di un gruppo di “ragazzi morti”, vittima di un sortilegio che li spinge a cibarsi di carni putrefatte – come gli zombi – e che impedisce loro di crescere e di stringere vere relazioni. L’addetto ha la testa verniciata di nero, esprime il suo disagio per una condizione alla quale non riesce ad adattarsi. Lo seguiamo in un parco, dove assistiamo all’incontro di una coppia di amanti: lei ricalcitrante, lui convinto latin lover, lei decisa a non concedersi, lui spaccone, fino alla rivelazione di una “diversità” che accomuna la ragazza con l’addetto dalla testa nera che avevamo lasciato al lato del palco.
«A Milano gli unici animali da cui devi guardarti sono gli uomini», dice l’addetto, e il rituale che dal primo approccio porta al primo bacio lo viviamo come un distanziarsi da relazioni corrotte, utilitarie. Occhi bassi, dritto in faccia non mi guardi mai, canta il latin lover con la chitarra in mano, in un clima emotivo che può ricordare la catarsi collettiva dei “grupponi” di ragazzi e ragazzi di fronte al fuoco. Ma non è così lineare come vorremmo, il “mostro” è dietro l’angolo: «mi hanno negato l’infanzia, rubato la gioventù, rovinato l’adolescenza, e adesso ci sei tu. Puoi dirlo a tutti che sono stato io, a farti un occhio nero, con la matita blu», canta a sguarciagola la ragazza trasformata in “ragazza morta”. Cinque allegri ragazzi morti è uno di quegli spettacoli che costruiscono nuovo pubblico, miscelando con leggerezza riferimenti e linguaggi, creando ponti fra spettatori che non si conoscono. I programmatori teatrali hanno una grande occasione fra le mani, anche perché Cinque allegri ragazzi morti scorre veloce, si avvicina a chi guarda dosando con sapienza l’empatia della forma canzone e il riconoscimento garantito da un’immaginario condiviso (quello di una fandom); parte da questo per affermare una diversità, un disagio, che poi è quello che tutti i giorni potremmo riconoscere (ma non comprendere) se osservassimo da vicino l’adolescenza. I cinque in scena cantano tutti insieme il brano che è un po’ il cuore dello spettacolo, I cacciatori dei Tre Allegri: «non guardarmi cosi perché ho 15 anni / non ho avuto il tempo di diventare Rock Star / che in Italia i tempi sono da elefanti / chi ce la fa non ascolta la mia musica».
Questa volta siamo noi spettatori a sentirci osservati. I ragazzi morti ci guardano, manifestano un disagio, rivendicano una diversità che forse non siamo (più) in grado di comprendere, noi con le nostre adulte narrazioni. Eppure dobbiamo interrogarla, questa diversità: è un malessere che si accontenta di autorappresentarsi, controllandosi e consolandosi? Oppure è un preludio di una nevrosi, è l’incipit di una ribellione?
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.