La prima edizione si era svolta a Forlì nel 2006 come ideale prosecuzione di un network di compagnie, legate a un libro curato da Paolo Ruffini e a una rassegna voluta da Santasangre al Kollatino Underground. Si svolgeva nelle sale squadrate di capannoni industriali a Terra del Sole, i “Magazzini Interstock”. Negli anni ha trovato nuovi spazi assecondando una tensione a rivolgere domande complesse alla propria città, diventando gradualmente punto di riferimento per le arti sceniche in Romagna. Ipercorpo è un progetto della compagnia Città di Ebla, è iniziato il 28 maggio e prosegue sino a domenica 31 alla Fabbrica delle Candele di Forlì. Ci si va per incontrare un “discorso in atto”, quello di alcune compagnie della ricerca teatrale e performativa italiana, ma anche quello di un festival che quest’anno si avvale dell’idea di Presidio come di un’ideale lente per osservare e modificare il paesaggio che lo circonda. Ipercorpo programma insieme ricerche performative e musicali, scommettendo fin dalla prima edizione su un’intuizione di affinità linguistica, ma organizza ultimamente anche “piattaforme” che presentano le compagnie italiane a operatori stranieri; altro filo conduttore degli ultimi anni è l’aver ancorato la propria indagine agli spunti offerti dalla Collezione Verzocchi, un patrimonio di dipinti “letto” come un archivio con il quale attivare risonanze con le arti della scena (Articolo 1, Tu sei qui, Come funziono sono i “nomi” associati alle ultime edizioni).
Ieri abbiamo attraversato la prima serata, incontrando compagnie le cui opere saranno in programma anche questa sera, 29 maggio. Strettamente Confidenziale di gruppo nanou (in replica fino al 31) è una soglia d’ingresso concreta e metaforica per il festival stesso. Per l’occasione il lavoro di nanou assume il titolo di Doppio Sogno, schnitzlerianamente sfumando i contorni fra dentro e fuori, fra realtà e finzione, fra qui ed ora della danza e sua gestualità che evoca tracce e ricordi passati. Si entra e si può sostare in una stanza rossa occupata dalla silhouette in ferro di una gabbia oppure ci si può spingere verso un’altra stanza che ospita la sezione di una camera. Qui lo spazio è troppo piccolo per contenere le presenze umane, costrette ad arcuarsi, a prodursi in verticali che appoggiano gli arti inferiori su una radio d’epoca, a cadere a terra come a mostrare un omicidio a cui venga sottratta la dinamica scatenante, lo svolgimento. Realizziamo di essere diventati i personaggi che osservano la metonimia di una metonimia: le figure (tre donne in sottoveste, un uomo e una donna in pantalone scuro e camicia bianca) si muovono “inquadrate” dentro a qualcosa che le contiene – la parte per il tutto – mentre noi siamo contenuti nelle stanze e nel corridoio di nanou, altra parte per il tutto. Le vediamo rinchiudersi rannichiando e rimpicciolendo il corpo, usare gli arti come contrappesi servendosi delle braccia come primati; le vediamo arcuare il corpo all’indietro fino a creare un ponte, oppure spostare il peso in avanti piegando una gamba con il volto coperto dai capelli, in figurazioni dal vago sapore metafisico. Odiamo un fondo melmoso di flutti sonori, un impasto denso di onde di chitarra elettrica solo a tratti interrotto da accordi e melodie. Usciamo. Saremo davvero “fuori”?
Dopo il labirinto, si presenta a noi una partita a scacchi. È il Teatrino Giullare con il suo Finale di partita, spettacolo rivelazione del 2006 e per nulla invecchiato. È Beckett che viene recitato da due manipolatori con maschere e dalle loro “protesi”, due burattini di legno su una scacchiera da tavolo, con Nagg e Nell che spuntano sottoforma di scheletrini da due piccoli bidoni. Echi kantoriani e klesitiani si fondono in una messa in scena che pare limitarsi a “presentare” senza rappresentare, via maestra per manifestare queste presenze per come sono, che si tratti di oggetti o di esseri viventi non fa distinzione. Le celeberrime battute di Beckett («al di fuori di qui, la morte», «Ma non può darsi che abbiamo un qualche significato?», «Che cosa vedi? Vedo.. una folla in delirio») grazie al Giullare assumono una verità inedita, basata su una sovrapposizione di vita e morte del tutto aderente al sostrato filosofico beckettiano. Una messa in scena definitiva, verrebbe da dire, per un testo che ha trovato la sua esatta forma.
Chiude la serata il suggestivo concerto dei Blind Cave Salamander, ospitato dentro a un autobus con le porte aperte. «Non è tempo di confronti attorno allo ‘stato delle cose’, piuttosto ci preme condividere una versione empirica del nostro comunicare e fare musica». A scrivere sono i curatori del programma musicale Davide Fabbri ed Elisa Gandini. Non vi pare questo un atteggiamento “sano”, punto di partenza che permette un confronto concreto fra l’opera e il suo contesto? Abbiamo infatti attraversato una stagione forse troppo alambiccata attorno a domande sul senso dei festival, sulla loro funzione, una stagione probabilmente necessaria ma che è giunto il momento di accompagnare con l’apertura di porte e le formulazione di proposte non solo interne. Anche per questo colpisce e stupisce l’oggetto ritmico non identificato ad opera dei Dewey Dell, il terzo spettacolo della serata prima del finale musicale. Teodora, Demetrio, Agata Castellucci ed Eugenio Resta ci attendono dietro a un tavolo/consolle apparecchiato con strumentazioni musicali elettroniche. Come dei dj inziano a manovrare tastiere, laptop, batterie elettroniche, il ritmo percussivo invade l’aria e vira verso tinte trance, si sarebbe portati al ballo, all’abbandono ritmico, non fosse che i musicisti prendono a recitare. O, meglio, a muoversi, a reagire al ritmo tramite una gestualità corporea che a noi pare in bilico fra racconto e astrazione, fra disegno coreografico e istintualità del ballo. Fendenti di braccia tese, balzi sul tavolo, partiture di braccia e gambe, “sfoghi” tribali abbandonando lo strumento e danzando di fronte al tavolo. Una musica gestuale e una danza musicata? Sembra di potere assistere a ciò che ogni compositore elettronico immaginiamo faccia nel privato della sua sala prove: dare un volto ai bassi, mimare le vibrazioni alte, dare corpo al percepire percussivo. Lo spettacolo si chiama Concerto e nel programma viene definito “performance”. Resta il dubbio di un’imposssibilità, quella di dare sostanza narrativa all’astrazione musicale, lambendo l’eccesso in mimiche facciali decise, in partiture gestuali marcatamente estroflesse. Dubbio molto ricco e accattivante, però, e soprattutto “divertente”.
Il festival prosegue sabato 30 e domenica 31, invitando fra gli altri i lavori di Paola Bianchi e Alessandro Bedosti, ospitando la ripresa di Suite Michelangelo di Città di Ebla e i concerti di Cosmetic, Lada, Matita e organizzando momenti di confronto sotto l’egida dell’Italian Performance Platforn (a cura di Silvia Mei). Appuntamento conclusivo di pensiero è una tavola rotonda sulla Collezione Verzocchi (a cura di Davide Ferri) che indaga possibili risonanze attorno al tema del “lavoro” nei nostri giorni, viste attraverso le opere di quattro artisti contemporanei esposti in diversi luoghi di Forlì.
Programma completo, informazioni, biglietti e orari
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L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.