Utopia è immaginazione politica, la sua forza visionaria si misura attraverso la sua radicale alterità. Disegno assoluto eppure rivelatore delle urgenze e delle aspirazioni della propria epoca, così come dei suoi fantasmi e fascinazioni. A partire dal confronto preliminare con l’opera eponima di Tommaso Moro e coordinati dal collettivo Rimini Protokoll, gli studenti dell’ultimo anno dello IUAV – Teatro e arti performative hanno allestito la scorsa estate un viaggio attraverso l’utopico che ha giocato con un tessuto urbano unico al mondo, conducendo i partecipanti alla scoperta di una Venezia insolita, a tratti trasfigurata, spesso dissolta nella finzione. La performance diffusa risultato del workshop si è insinuata in una città millenaria, apparentemente cristallizzata, per dischiuderne un enorme potenziale creativo, capace di ospitare alterità e visioni da molteplici altrove.
Disclaimer: quella che segue è soltanto una delle molteplici combinazioni con cui avremmo potuto raccogliere le varie utopie incontrate e attraversate lungo i 240 minuti di performance il 28 giugno 2018. Un po’ è casuale, un po’ è arbitraria. Seguiteci o prendete la vostra personale direzione, mescolando l’ordine della pagina e lasciandovi guidare dalla vostra curiosità. L’orizzonte è sempre il medesimo: Utopia.
VeTaBo
Una città dove tutto è permesso, lecito. Una città dove ogni bisogno e piacere può essere soddisfatto, liberamente. Certo, purché si rispettino scelte e limiti altrui. Questa è VeTaBo, uno degli spazi utopici entro i quali ci immergiamo. È attraverso un breve video, con disegni e voci fuori campo, arrivato sul nostro smartphone per mezzo di un codice QR, che scopriamo dove ci troviamo. VeTaBo deriva dal verbo latino veto, ossia “vietare”, “opporsi”; ma è anche acronimo di Venere, Tabacco e Bacco, le tre regioni di cui questo luogo è composto.
Un questionario ci indica a quale delle tre sezioni siamo più inclini. Seguiamo allora le indicazioni a terra, tracciate con gessetti colorati, fino ad arrivare a un piccolissimo campiello circondato dall’acqua. Attorno a noi le tre regioni: Bacco, in cui gli abitanti sono invitati a lasciarsi andare ai piaceri del cibo e del vino; Tabacco, in cui ci si abbandona all’assuefazione di fumo e droghe attorno a un grande narghilè; Venere, dove una ragazza dai capelli azzurri e il vestito provocante accoglie gli ospiti sopra un drappo rosso e spiega loro che lì, in quello spazio, è possibile soddisfare ogni desiderio sessuale. Ognuno di noi si può muovere liberamente per le varie sezioni di VeTaBo, decidendo se e cosa fare. È il luogo della piena soddisfazione dei piaceri, un “paese dei balocchi” senza connotazioni negative, costruito e realizzato in maniera articolata, il cui principio fondante “la propria libertà finisce dove inizia quella altrui” disinnesca paradossalmente lo slancio utopico, inghiottito dall’adagio liberale per eccellenza, tra senso comune e status quo.
Wau
Alcune utopie covano al riparo di anfratti segreti, altre si snodano nei meandri di calli e vie d’acqua. Poi c’è Wau, utopia invisibile, terra promessa al di là della linea dell’orizzonte che sfuma dietro all’isola della Giudecca. Un non-luogo, fedele all’etimo di u-topia, che tuttavia fa della sua distanza incolmabile la sostanza di un desiderio atavico: viaggiare. Ci imbarchiamo allora nella finzione davanti al Terminal S. Basilio deserto, il vento che soffia sulle nostre facce e increspa la laguna, mentre una voce auricolare compone il nostro dialogo interiore, trasforma il nostro sguardo e trasfigura lo spazio circostante. Seguendo la narrazione, diamo corpo in prima persona a tre fenomenologie del viaggio molto diverse. Viaggiatori comuni, per lavoro, per diporto, in attesa di un imbarco frenetico sì, ma lineare come la retta tra A e B. Condizione apparentemente naturale, che invece si rivela privilegiata non appena i nostri documenti vengono bollati con “obsoleto”: il viaggio dei sans papiers rimbomba del frastuono della guerra, ha la necessità della sopravvivenza, mentre confini e frontiere prima lievi come la carta prendono il sapore metallico dei cancelli sbarrati a cui ci aggrappiamo con le dita. Esuli, fuorilegge e impotenti osserviamo la placida indifferenza della nave ormeggiata. Ma ecco spalancarsi la possibilità del viaggio immaginario: chiudiamo gli occhi, isolati dal circostante la percezione del nostro corpo si fa più acuta. Da questa unità fondamentale ci incamminiamo per il nostro terzo viaggio, ognuno nel punto del globo che preferisce, il corpo che mima all’esterno il nostro attraversamento mentale. Un viaggio libero, senza peso, senza discriminazioni. Wau resta sullo sfondo, irraggiungibile, ma la voce che da là ci parla non ha dubbi: il viaggio è possibilità infinita su Wau, per tutti.
Orto
Un capogruppo viene nominato affinché, attraverso delle indicazioni date a telefono, ci conduca tra le calli di Venezia fino all’Orto del Campanile. Così dice l’insegna in legno all’uscio di una porta. Siamo accolti da una ragazza con una gonna lunga, la seguiamo lungo il corridoio, fino a una stanza che dà proprio su un orto. Siamo invitati a toglierci le scarpe e a bendarci. Ascoltiamo le parole di questa ragazza, al buio, mentre si muove nello spazio. La perdiamo, ci perdiamo. È ora di ascoltare i nostri sensi e immergerci a piedi nudi nell’orto alle nostre spalle, lasciandoci alle spalle il quotidiano, la città e i nostri cellulari. Passeggiamo in silenzio lungo quel fazzoletto di terra. Ascoltiamo il rumore della natura al solo tocco delle foglie. Creiamo delle connessioni con lo spazio, con i nostri compagni di viaggio, con la vegetazione, con noi stessi. Sentiamo il profumo dei pomodori appena nati, il calore della terra sotto i piedi, l’erba secca che punge, un insetto volare, il rumore dell’acqua versata dalle fanciulle dai lunghi vestiti bianco-azzurri. Lo squillo di un telefono. Ci risvegliamo, piano. Torniamo con i piedi nelle nostre scarpe. Eccoci di nuovo nel quotidiano. Sembra di aver vissuto un sogno, una intensa passeggiata in un hortus conclusus, un locus amoenus. Qualcosa ci ha lasciato, una sensazione di appartenenza alla terra. Forse un Eden lo possiamo ritrovare, anche se per poco, in brevi parentesi di respiro, lontano dalla vita di sempre, per ritrovarci in quanto esseri viventi in questo mondo. Un’utopia forse più realizzabile di quanto si pensi.
Teatro Italia
Avviene che l’utopia non guardi soltanto a città abitate da uomini, ma sia incalzata da un altro ordine di realtà: le cose. Il Teatro Italia, sorto agli inizi del XX secolo e ora diventato supermercato, accumula una tensione straniante che si scarica in un cortocircuito spazio-temporale, in cui liberty e neogotico, un tempo cornice al teatro di prosa e più tardi al cinema, celebrano la più pervasiva delle mise-en-scène: lo spettacolo della merce. Immersi in una narrazione auricolare osserviamo dall’alto della loggia la fantasmagoria del gran teatro del supermercato, in cui prodotti e consumatori si incontrano, si provocano, si scelgono. Flirtano, ognuno intento a trovare il miglior match con cui uscire. Le parole tradiscono una sovrapposizione, uno slittamento: l’idioletto di Tinder è inconfondibile e improvvisamente si presta tanto alle relazioni interpersonali quanto a quelle con le cose, tra gli scaffali. Un’ambiguità che non si risolve, anzi si complica, quando da spettatori veniamo coinvolti in questa caccia debordante e caotica, alla ricerca della propria scelta. Tutto finisce alla cassa, posiamo i nostri acquisti fittizi e rispondiamo a un sondaggio. Più tardi i risultati diranno che più del 70% degli intervistati (noi!) rivela tendenze poliamorose: niente ci soddisfa per sempre, nessuno crede – o crede più – nell’amore eterno. Si insinua così una lettura obliqua: svalutiamo le relazioni umane fino al grado di cose, o con quest’ultime riscopriamo una fascinazione intensa, magari superficiale, ma autentica? Distopia della reificazione totale, oppure forse utopia di un amor rerum liberato dallo stigma imperante sulle cose?
Coop
In un luogo tranquillo e isolato, seppure circondato da due degli spazi più frenetici di Venezia, la stazione e Piazzale Roma, ascoltiamo una dolce voce alle nostre orecchie. Dice di chiamarsi Morgana e di trovarsi in un luogo lontano. Ci chiede di osservare quello che abbiamo attorno: la stazione, il Ponte della Costituzione, il Ponte della Libertà, la Questura, le pompe di benzina e infine il supermercato Coop. È qui che Morgana si sofferma, per illustrarci le pressanti condizioni di lavoro dell’azienda: sembra che i dipendenti non possano prendersi nemmeno una breve pausa e non abbiano molto tempo libero da dedicare a se stessi e alla propria famiglia. Morgana estende il suo discorso anche alle fabbriche (d’altronde, in fondo a destra, si intravede Porto Marghera) e, invitandoci a metterci in cerchio, tenta una simulazione di tale esperienza lavorativa: ci passiamo dei prodotti come in una catena di montaggio, alle orecchie un battito sempre più incalzante scandisce il tempo come un metronomo impazzito, costringendoci a improvvisi cambi di direzione, sempre sull’orlo di inceppare il meccanismo, in un ritmo modulato da minacce di licenziamento e adeguamenti di contratto al ribasso. Suona la campanella, stop. Ora alle orecchie una dolce melodia. Morgana ci invita a «regalarci gesti» come sorrisi, baci, abbracci, per sentire in noi una «nuova energia», quella che lei ritrova a Yoi Basho, il luogo misterioso da cui ci parla. Ci racconta che lì la società è calibrata sulla base del grado di felicità delle persone e tutto concorre al benessere dei cittadini. Non a caso Yoi Basho in giapponese significa “buon luogo”. Morgana sembra proporci una visione ingenua e per certi versi inattuale, un orizzonte verso il quale la comunità dovrebbe dirigersi per superare quei divari (da una parte non più urgenti come un tempo, dall’altra forse in parte già superati) tra industria e agricoltura, produzione e cultura, fabbrica e natura. I tempi della catena di montaggio sono terminati, siamo nell’era post-industriale, il capitalismo, trionfante, è il nostro mondo. Può una simile utopia essere ancora auspicabile e perseguibile nel XXI secolo?
Cus
Un’utopia è sempre desiderabile? Restituisce sempre una visione pacificata delle cose? Quando diviene la distopia di se stessa? Il Ginnasio delle Perle di Vetro esplora questo spazio chiaroscurale. La palestra è il luogo dell’allenamento, ma il ginnasio rimanda a un esercizio più olistico, in cui dedizione, costanza e disciplina inseguono la via del benessere della mente e del corpo in uno spazio saturo, insieme zen e marziale. Si comincia dalla sala attrezzi: una teca di plexiglass espone alla nostra finzione gli ignari avventori alle prese con macchine e pesi. Una didascalia ci illustra, sulla scorta di Foucault, che qui il corpo diviene il grado zero dell’utopia. La mente richiede un trattamento diverso: la tecnica delle biglie di vetro. Un giovane allievo siede di fronte al maestro, tra loro una ciotola piena di sfere. Una alla volta, a seconda di quanto stabilito dall’alea dei dadi, sono introdotte nella bocca dell’allievo, fino quasi al soffocamento. Proprio qui la curiosità e il gusto dell’osservazione si intorbidano di un’empatia oscillante: si alternano il disagio per un esercizio di tortura e la partecipazione allo sforzo agonistico, per sopportare una biglia in più del tentativo precedente. Il maestro ci ingiunge di lanciare i dadi: con orrore si insinua una vena di compiacimento, trasformati per un istante in maestri-carnefici e al contempo in nuove cavie per una variante dell’esperimento Milgram.
La sessione è finita. Scortati fuori dai cancelli, prende forma il dubbio che questa fosca utopia della disciplina e della tecnica non sia così lontana dalla nostra quotidiana cosmetica del corpo e della mente.
Alla difficile prova dell’utopia, forse nessuno dei tentativi è riuscito a diventare scheggia incandescente di inediti futuri, restando trappola di immaginari profondamente radicati nella nostra tradizione occidentale e moderna o rinunciando allo slancio creativo in favore di uno sguardo critico sul presente. Ciononostante, il mosaico complessivo – non sempre di facile ricomposizione – ci pare abbia restituito un’esplorazione poliedrica, facendo vibrare molte delle risonanze legate al nome di Utopia. Una volta di più ne facciamo il nome ed essa si dilegua intangibile.
L'autore
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Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.