All’amore si aggiunga la coscienza dell’amore: questo era il suggerimento finale dei Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini. La medesima coscienza emerge, più che mai volenterosa di amplificare se stessa, nelle tematiche portate in scena in Abbiamo finito i buoni sentimenti. Non ne abbiamo mai avuti, di Niccolò Fettarappa – esito di uno dei laboratori del progetto Comizi d’amore #ADOLESCENTI svoltosi in tre istituti educativi bolognesi. Il regista, prendendo le mosse dal citato documentario, riesce a tirar fuori qualcosa che probabilmente lo spettatore non sapeva ancora di voler conoscere, portando in superficie le giovani voci che dall’interno scalpitano, che chiedono la propria legittimazione, e che vogliono liberarsi dall’ansia della vita adolescenziale. Gli studenti del Minghetti, che hanno realizzato lo spettacolo proprio durante l’occupazione della scuola, hanno trovato in essa, forse, un modo per scacciare quest’ansia attraverso un obbiettivo comune, ideologico e performativo. Perché l’occupazione è stata utile a far elevare quella coscienza che in ogni ragazzo freme, imponendo allo sguardo adulto la propria verità.
Lo spettacolo di Fettarappa è un itinerario che sa giocare con gli spazi. Aule, cortili, finestre, scalinate antincendio: tutto diventa il luogo che contiene questi ormoni impazziti, queste schegge di vitalità. Ma anche l’imbarazzo e la paura di esporsi, la voglia di concedersi una propria appartenenza a qualcosa, l’andare oltre le soglie di ciò che si vuole essere, per mostrare al contrario solo ciò che si è. Svelare la propria identità di genere, rivendicare la bellezza di un “limone” rispetto all’aoristo, domandare, pretendere, ribellarsi. Scomodare Gioacchino Rossini per danzare a più non posso. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito forse non immagina quanto un ragazzo senta il bisogno di “meritare di esistere”, di sentirsi ascoltato. Ma è proprio “merito” la parola che apre il viaggio, svelata dalle parole di un ragazzo che scruta gli spettatori con aria di superiorità, e permette solo a chi a sua volta “se lo merita” di seguire lo spettacolo.
Poi una scalinata diventa il palcoscenico in cui, da sotto il velo da sposa, il corpo di un ragazzo trans “si mostra” ai presenti, come davanti a un tribunale in cui attende di essere scagionato da una colpa inesistente. La sua storia, raccontata con semplicità e coraggio, aiuta a comprendere e a porsi questioni. Ed ecco che alle sue fiere parole si sostituiscono poi quelle del “bello” della scuola, e quelle del coro delle ginnasiali, coi pensieri sui loro coetanei. In mezzo a tutto questo, un’eco inquieta ci rimanda ai termini non più estranei di DAD, pandemia, gocce per l’ansia. Dall’amore si giunge al parlare di isolamento, ma dall’isolamento spesso, purtroppo, non prevale il percorso contrario: lì dove si è soli, d’amore non si può più parlare. Può essere, l’ansia di questi giovani, un’ansia nata dalla lontananza dell’amore? Amore non solo erotico, ma anche quel tipo di amore per un’idea, per una giusta causa verso cui tendere. L’occupazione è diventata così il luogo della liberazione, di un riavvicinamento all’amore, in tutte le sue accezioni.
La recitazione gioca con ironia all’interno di questi luoghi deputati, come quando compare un ragazzo in camice e mascherina, che inizia a distribuire ai presenti un prodigioso cocktail di psicofarmaci. Nel cortile, due finestre aperte sulla giovinezza al tempo stesso si chiudono nell’occhio degli adulti che sono lontani, sempre e troppo lontani. Infatti, è proprio dalla finestra che Nicola Borghesi si rivolge a Niccolò Fettarappa, alla finestra di fronte, come a marcare una separazione da ciò che sta sotto di loro, da quell’adolescenza a cui vorrebbero riapprodare ma che non gli appartiene più e che possono guardare solo così, a distanza. E così da un lato all’altro rimbalzano le loro opinioni e le loro idee. Fettarappa, in un monologo, erompe in un simulato disaccordo coi motivi dell’occupazione, lasciandosi poi andare, in un tono tra l’invidioso e il lacrimevole, al rimpianto per quell’età, per quel modo di vivere l’erotismo, per quell’energia che finalmente gli fa dare un’immagine nitida alla parola “ormone”. Come in un cerchio magico, i ragazzi circondano gli spettatori. Siamo di fronte a un rito, alla nascita di quell’energia.
Le classicheggianti note di Rossini preparano il grande evento: gli studenti mimano lo strimpellare di violini, tutti composti, perfetti, come allievi modello del più disciplinato conservatorio del mondo. Ma subito dopo una svolta: techno selvaggia. I ragazzi si muovono senza freni, convergono tutti verso il centro del cortile. Si divertono, tirano verso di sé altri ragazzi che che non avevano partecipato allo spettacolo, nascosti tra la folla di spettatori, e poi si distribuiscono sulla scala antincendio. Si elevano anche loro, finalmente, e guardano coloro che stanno al “piano di sotto”, con tutta l’irriverenza della loro adolescenza, quasi ma non ancora giunta nel mondo fuori, nel mondo terribile, nel mondo dell’angoscia esistenziale, del lavoro, della fine dei sogni. Come l’ultimo saluto agli adulti da parte di un Pinocchio collettivo, nell’attimo che precede il diventare un bambino vero.