C’è un momento in cui ci si perde. Prima si teneva in mano una direzione, dopo ci si lascia disporre dagli eventi. Come quando siamo seduti a teatro: vogliamo restare vigili ma poi, in rari casi, ci accorgiamo che siamo stati pervasi. Prima osserviamo, dopo accade che il tempo del teatro coincida con quello della vita. Usciti dalla sala anche il paesaggio intorno è cambiato.
Parla con mia madre di Roberto Corradino, interpretato dallo stesso autore e regista e da Teresa Ludovico (attrice e regista del Kismet di Bari), è uno spettacolo sulla debolezza. La vita del protagonista non procede, qualcosa si è rotto. La madre è assente, un asse su due cavalletti occupa il centro del palco: un tavolo su cui poggiare i gomiti, un traballante terreno su cui camminare; il figlio ci racconta di essere in fila alle poste, incombenze molteplici e quotidiane manifestate attraverso frammenti di soliloqui, come degli “a parte” di un personaggio la cui consistenza pare sovrapposta a quella di un’ipotetica quotidianità dell’attore, un uomo di quarant’anni che guarda il paesaggio attorno a sé e non lo riconosce, un ragazzo che cerca conforto nelle relazioni e nella famiglia e non le trova, un adulto che prova ad ascoltare il cuore e lo scopre malato, irrimediabilmente corrotto. Un fascio di luce lo illumina, lui guarda il pubblico, Corradino ci sta guardando, è a noi che parla, a noi che siamo come lui. Noi spettatori che vorremmo saperne di più sulle nostre vite, a volte incapaci di tenere alto il cuore dei desideri, noi dimentichi di stare osservando un attore e un attrice. Noi che da questo posto in platea potremmo ritrovare le tracce per una strada possibile, come quel personaggio là sul palco.
L’uomo chiama al telefono sua madre, dice di essere malato terminale. Poco dopo qualcosa cambia, ma noi non lo vediamo: la stessa donna in scena da “madre” diventa la nonna ma anche “la madonna”, lei stessa lo dichiara. La donna rimprovera al figlio di non essere cresciuto da quando era bambino, sostiene che per pensare al futuro c’è un tempo per piangere e ora è venuto quel momento. In un lampo si manifesta una festa di carnevale sulla scena: il figlio ha paura, abbraccia la donna, i due si sostengono in piedi sull’esile asse sui cavalletti, dove prima la madre era salita per stendere, tremolando.
Il figlio si sta preparando alla morte, anche se sospettiamo che non tutto vada preso alla lettera. La madre è tornata, una madre che non c’è mai stata, dice il figlio; pensiamo alla crescita, ai rapporti fra generazioni, al disagio e alla nebbia dei trenta-quarantenni che potrebbero essere padri e madri e si ritrovano figli senza guide, colpevolmente adagiati in una dilazione della responsabilità ma anche forzati a generare esempi non commensurabili, inseguendo avi e fabbricando archetipi visionari (qui a Bari, solo un po’ più a nord di quel Sud del sud dei santi). Ci si perde, in questa nebbia, e nel lucore ci visitano queste donne-guida, con il loro prendersi cura che è spronare beffardo e l’inevitabile negarsi. Allora chi o cosa sta morendo, mentre si sta crescendo? Il vento che soffia e che fa male verso la libertà di Nada aveva rotto il buio, all’inizio. L’epilogo è verso le stelle, verso le quali buttare questo nostre enorme cuore, un giorno, con De Gregori.
Ciò che qualifica il lavoro di Roberto Corradino è una sorta di polimorfismo, pur in un alveo poetico dove scorrono rivoli carsici ricorrenti (dalle situazioni drammatiche messe a fuoco nei momenti di apice della tensione narrativa, attorno a Shakespeare, alla necessità che sia l’attore-autore a farsi carico di una reinvenzione del teatro in tutte le sue parti, non più delegate). Spesso la coralità si è alternata al racconto con attori più simili a presenze che a personaggi. In Parla con mia madre qualcosa ricorda la compresenza di finzione e autoriflessione della coppia di figure che progettava un attentato in Le Braci (2013), altro riporta ai frammenti biografici generazionali del gruppo di giovani di Cuore (2001), altro ancora ricorda il procedimento che fotografa una situazione drammatica nell’acme del suo compimento, come già detto, e con un velo di ironia che impedisce il dispiegarsi del tragico, come avveniva in Come ora affondo nel mio petto (2004). Forse in Parla con mia madre emerge con ancora maggiore evidenza quanto lo scriversi addosso di Corradino sia sempre autobiografico, e così non lo sia mai davvero del tutto. Una via che mette in discussione il proprio “io” senza farne un tema, lasciandolo aleggiare nell’aria rarefatta che sta attorno a un palcoscenico vuoto, mostrando fra l’altro una possibilità concreta, uno specifico del teatro nell’era dell’individualità come spot (Walter Siti). Una scrittura che si fonda sulla sintesi, quasi una reticenza narrativa: da Parla con mia madre se ne esce infatti sperando in un eventuale secondo atto, cercando risposte a domande sulla storia di questi personaggi-attori, a quanto c’è stato prima e quello che ci sarà dopo. Corradino e il suo teatro sembrano volerci indicare una via per ipotizzare un noi, ma è come se oltre una certa soglia non si potesse proseguire senza prima avere messo sul tavolo la nostra debolezza, il nostro perderci, le domande che dobbiamo ricominciare a porci.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.