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Otello-Kinkaleri

“OtellO” di Kinkaleri: recensione in tre elementi

di Giuseppe Di Lorenzo

«Gli eventi della natura sono sempre interazioni. Tutti gli eventi di un sistema occorrono in relazione ad un altro sistema. […] Le proprietà delle “cose” si manifestano […] solo nel momento dell’interazione, cioè ai bordi del processo, e sono tali solo in relazione ad altre cose, e non possono essere previste in modo univoco, ma solo in modo probabilistico».

– Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare

Il linguaggio segreto dei corpi, il loro costante sforzo per trovare un equilibrio, la fiducia nel gettarsi tra le braccia di qualcuno: Kinkaleri traduce l’Otello di Shakespeare in maniera lineare, quasi didascalica, anche se del testo parlato non lascia che una semina frettolosa, mentre il testo vivo/carnale guizza e suda sul palcoscenico. In prima assoluta al Teatro Fabbricone di Prato, OtellO comincia con una corsa tra i quattro interpreti, la cui forza centrifuga mette in moto le vicende come particelle di un evento cosmico. Da lì in poi le combinazioni tra i diversi elementi costruiranno le relazioni di potere, gelosia, invidia, tormento, fino a una tripartizione finale solo apparentemente criptica, ma che segue un preciso filo logico estetico.
OtellO si divide in tre elementi, una tricromia composta dal testo, dal corpo e infine dalla relazione tra questi due, ma più che una somma di singoli fattori ciò che mette in luce lo spettacolo è il rapporto di forza tra di essi, quell’incostante equilibrio dove si celano le chiavi di lettura, l’ambiguità probabilistica della realtà.

Testo. Nella prima parte il testo, per quanto frammentato, evoca precisi momenti dell’opera, ponendo le basi sulle relazioni corporali protagoniste nello sguardo dello spettatore. Sono parole violente, che ragionano di impurezza della discendenza e quindi del sangue, di tradimenti insospettabili, di corruzione dei costumi e della razza. Qui, la contemporaneità che OtellO vuole evocare è piuttosto chiara e senza fronzoli.
Nella seconda parte il testo è coreografico e i performer, completamente nudi (quindi sinceri per definizione), formano le singole lettere del celebre «Io non sono quello che sono», ancorando questa tragica consapevolezza dell’immediatezza dei corpi, alla loro fragilità nei confronti dell’ambiguità della parola. Dopo avere dato un breve spazio alle riflessioni di Iago, rappresentate come una piramide umana composta da quattro “pensatori” di Rodin accavallati l’uno sull’altro, si scatena una tempesta di sentimenti contrastanti, evocati da questo enorme telo che simula un mare burrascoso.
La terza parte è più coincisa, le parole si schiudono e si ritraggono, l’orrore finale si disvela in poche battute declamate con un’intenzione sempre più fievole. La semina del testo ha compiuto il suo ciclo, fiorita nella seconda parte con l’ausilio dei corpi, e muore nel freddo buio che reclama la sala.

Corpi. Nella prima parte i corpi si cercano e mutano spostando i propri equilibri, sembra quasi un rapporto di fiducia costruito sul contrappeso. Con meno efficacia delle parole shakespeariane, i corpi tentano di restituirci l’incertezza di un linguaggio segreto, anche se le coreografie sono così perfette e calibrate da disegnare un paesaggio armonico e quasi ideale. Per mettere in chiaro quale dovesse essere l’intento di questi incastri, la seconda parte è una breve ma cadenzata enunciazione di «Io non sono quello che sono», un’evocazione necessaria, che prepara lo spettatore alla terza parte. Sotto un’ombra imponente e illuminati da poche ma chiare luci che delimitano il ristretto spazio di dialogo, ci sono gli ultimi movimenti che racchiudono tutta la bellezza di questo progetto.
Se nella prima e nella seconda parte OtellO risulta a tratti così cervellotico da toccare i tasti dell’algidità, nel finale, col suo digitare più composto ed etereo, trova il suo ritmo e la sua irrequietudine. I corpi stavolta sembra quasi che stiano per esplodere dalla quantità di sentimenti che li posseggono e contorcono, eppure si stanno spegnendo, come anime attorno a un falò mentre il freddo della notte incombe. È un moto contrario, proprio nel culmine della loro vita rallentano fino all’inerzia (collimando con la corsa che apre lo spettacolo, in una ricorsività tipica dell’interpretazione moderna dei testi shakespeariani).

Relazione. Il collante tra testo e corpi si trova nella relazione, cioè nella loro interazione. Il primo segmento dello spettacolo vuole essere una messa in crisi del soggetto in quanto individuo, ed è anche il momento in cui questo OtellO arranca di più. La sua fame di contemporaneità, in particolare nel farci riflettere sulla troppa fiducia che diamo alle parole (le quali invadono come «muri di testo» tutti i nostri social, che hanno soppiantato il linguaggio ponderato dell’informazione giornalistica) per ricalibrarla su una fiducia collettiva verso la corporeità, s’infrange parzialmente su una coreografia molto armonica e rigorosa, quasi meccanica. Nella seconda parte si cerca di correggere il tiro, come già detto, facendo primeggiare la parola di Shakespeare, punteggiandola con precisione, evitando ogni balbettio come in un dipinto “puntinista”, calibrandone il significato attraverso una delicata relazione tra tre colori. Tre colori che sono protagonisti del finale, il blu, il verde e il rosso: il blu coincide con la follia omicida di Otello, il verde con la rivelazione del suo errore/orrore e la luce rossa, ovviamente, col suicidio, che lentamente si spegne lasciando che il deserto nero invada l’ultimo barlume di vita.

Raccontare il presente tramite i corpi non è certo una novità per Kinkaleri, ma non per questo OtellO è un’opera ripetitiva o autoreferenziale; anzi vi è una lucida scrittura soggiacente e la capacità di far confluire diversi elementi molto complessi, almeno sulla carta, in un finale assolutamente leggibile e anche spettacolare. In questo suo alternarsi di spunti intellettuali e dichiarazioni d’intenti trova un suo equilibrio nel non sfociare nell’indecifrabile silenzio o nella puntigliosa verbosità, eppure a tratti sembra provarci troppo, teso a raggiungere il suo scopo in modo quasi didascalico, come un puzzle da risolvere in 70 minuti, non uno di più non uno di meno, quando invece gli spunti migliori sono quelli che si manifestano meno a fuoco, che quindi operano ai bordi del processo creativo.

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