Carne e dramma secondo il LEV di Sharon Eyal
Siamo già a settembre e in pochi ancora pensano al mare, al caldo e all’ozio agostano. La nostra direzione in questi giorni di fine estate è stata Rovereto, città trentina che ogni anno dal 1981 ospita il Festival Oriente Occidente. Grazie ai suoi spettacoli e agli incontri con artisti di tutto il mondo, il festival è sempre più focalizzato sulla danza, negli ultimi anni forse con un cambio di prospettiva “cardinale”: una ricerca da nord a sud, come ha affermato il direttore di Danza&Danza Maria Luisa Buzzi in una recente iintervista. Ci troviamo in viaggio verso una città in cui si respira aria densa di ricordo e cordoglio per la Grande Guerra. Una città dove la vista non è il senso dominante e che ti accoglie di primo mattino con un certo spaesamento. Difficile comprendere se sia colpa del sonno, degli occhiali appannati o della nebbia circostante… Diventa un piacere però lasciarsene avvolgere, sopratutto se a sera, al buio, in lontananza nella sala del Teatro Sociale di Trento appaiono indistinguibili in questa foschia sei sagome in tute nere opache. Avanzano come gli automi di Depero, ben noti ai roveretani o ai visitatori del MART. Sono i sei corpi del LEV di Sharon Eyal e Gai Behar, compagnia e collettivo di amici oltre che danzatori, come ci spiega uno di loro (Leo Lerus), tutti di formazione Batsheva, basata sulla potenza dello stile emozionale della danza detta Gaga fondata dall’israeliano Ohad Naharin, di cui non si può non notare l’influenza.
Sara, il lavoro che introduce lo spettacolo, appare come una visione macroscopica e illustrativa del conflitto interiore ed emotivo di una donna, Rebecca Hytting in questo caso. La sua figura longilinea rimane separata dal resto del gruppo, concentrata in un monologo gestuale. Ci parla in playback con le voci delle composizioni elettroniche di Ori Lichtik, dai toni un po’ infantili e un po’ cyborg. Accanto, i restanti corpi fluidi danno forma alle sue emozioni in modo gentile e veritiero con un gesto che parte lì dove il dramma esistenziale di “Sara” nasce: dal cuore, lev in israeliano. Dal bisogno d’amare, probabilmente.
Meno lirico il lavoro che immediatamente segue, Killer pig, risultato nevrotico di una ricerca sulla schizofrenia umana e la sua tensione alla violenza e al conseguente senso di colpa. Come in tutti i suoi lavori, Sharon Eyal rifiuta la narratività e il riferimento alla cronaca americana sull’allevatore di maiali, nonchè omicida di sei donne, è solo un pretesto. La ricca e complessa composizione coreografica non lascia spazio all’improvvisazione. I corpi sono carichi di tensione con quella camminata un po’ curva sull’avampiede, in preda a crisi psicomotorie come sotto ecstasy, appesantiti dalla luce calda. Potenziali carnefici e vittime. Ogni sequenza è dettagliatamente costruita e ripetuta nelle sue varianti emotive. Dalla rabbia al risentimento, dalla paura al tentativo di scrollarsi di dosso il ricordo delle proprie azioni. Disagi emotivi che nascono per esempio dalla zona pelvica: un vulcano interiore che se soffocato crea tremolìi muscolari e non può che sfociare in assoli esagitati nei quali viene da domandarsi quanto ancora questi corpi così allenati, espressivi e flessibili abbiano da imparare. La destrutturazione del movimento e della sua canonica bellezza estetica è totalmente messa in discussione dalla Eyal, la quale non riesce a distaccarsi del tutto dallo stile Gaga e dà forma a lavori al limite del perfezionismo e della cura del dettaglio. I suoi danzatori, nel percepire la tensione della carne e dei muscoli, sono palesemente immersi in un eroico conflitto interiore sia sensoriale che emotivo. Mentre il pubblico ne esce probabilmente coccolato, ammaliato dai sei corpi che con la loro maturità artistica addolciscono il minuzioso lavoro di ricerca della Eyal sull’emozione, al termine di un’esperienza estetica rassicurante e di facile applauso.
di Alice Murtas
Exquises di Annabelle Bonnéry e Archive di Arkadi Zaides. Viaggi sensoriali
«Ma cosa sarà mai questa robina qua?». Non mi veniva in mente altro mentre guardavo quel pezzettino di, probabilmente, carne con un’amarena sopra. Una ragazza accanto a me mi guardava con la coda dell’occhio sperando che io trovassi il coraggio di mangiarla e, accorgendomi dei suoi tentennamenti e continuando a essere ipnotizzata da questa strana portata, per spezzare il ghiaccio le ho detto la stessa cosa che dissi a me stessa quando ruppi il piatto preferito di mia madre: «Ho paura!». Naturalmente non ho migliorato la situazione quando le ho fatto notare che nel menù l’entrée era presentato come «terrina di ruminante». No, non ero in un ristorante ma al Museo delle Scienze (MUSE) di Trento per la prima nazionale di Exquises (2 e 3 settembre) di Annabelle Bonnéry, in scena con Jennifer Dubreuil, che con l’artista visivo François Deneulin ha fondato la Compagnie Lanabel nel 1998. La situazione era alquanto strana: invece del solito programma di sala ho ricevuto un menù che, oltre ai ruminanti, proponeva un misto di «nuotatori e delizie per conigli», la tipica poltrona rossa è stata sostituita da comode sedie e due file di tavoli una di fronte all’altra messe a ferro di cavallo per creare lo spazio della performance. Tutto quello che vedevo o leggevo non era affatto invitante, ero quasi pentita di essermi cacciata in questo guaio, l’unica cosa che mi consolava era lo sguardo sorridente dello chef stellato Thierry Moyne che diligentemente ci serviva del vino rosso.
Prendo coraggio: assaggio. Inaspettatamente mi rendo conto che i miei timori erano infondati. Quell’insignificante e invendibile pezzettino di manzo è stato una rivelazione, un nuovo piacere per il mio palato ed è stato un crescendo fino all’ultima portata. Si tratta di uno spettacolo che ha come obiettivo non solo deliziare il pubblico con delle degustazioni di cibo e vini francesi, ma che vuole giocare con i sensi prendendo in considerazione anche lo sguardo e l’udito. Le braccia dietro la schiena, i movimenti meccanici, i sorrisi finti, le ordinazioni e i convenevoli urlati e ripetuti fino allo sfinimento, la minigonna/divisa indossata per ogni portata (cinque in tutto) delle due danzatrici, trasportano il pubblico in un ristorante magico in cui i rumori da cucina, della porta di sala che si apre e si chiude, il tintinnio dei bicchieri, le risate e il vociare dei clienti, diventano materiale sonoro con cui Marie-Pascal Bertrand crea una traccia elettronica che aiuta a creare un vero e proprio viaggio sensoriale. Ogni degustazione si alterna a momenti danzati che a volte si dimostrano introspettivi, in questo senso è emblematico l’assolo della giovane Dubreuil che avvolta da un fascio di luce sembra prendersela con un tovagliolo stringendolo tra i denti e attorcigliandolo intorno al volto. Allo stesso tempo, le performer si prendono gioco dello spettatore/cliente, lo guardano maliziosamente, salgono sui tavoli per porgergli le pietanze dando anche a chi guarda la responsabilità dell’azione scenica. Alla fine mi sentivo ubriaca, non per il quinto vino che stavo bevendo (il menù rassicura specificando che le degustazioni corrispondo a meno di due bicchieri), ma per tutti quei movimenti, quei suoni, quelle parole, quei sapori, quelle prelibatezze sensoriali. Quelle, appunto, exquises che amplificavano il piacere dei miei sensi. Questo spettacolo non cerca di inerpicarsi in alcun argomento impegnato, vuole semplicemente sorprenderci unendo l’arte culinaria e quella del movimento. Due arti diverse e a volte sottovalutate che riescono a dialogare perfettamente e che possono rientrare pariteticamente nel nostro quotidiano, per nutrire e arricchire non solo il nostro palato ma anche il nostro sguardo.
Si concentra sulla percezione e sulla sensorialità anche lo spettacolo di Arkadi Zaides, coreografo israeliano che inizia un percorso autonomo dal 2004 dopo aver danzato per Batsheva Dance Company. Tra uno schermo e il pubblico avviene qui il suo assolo, Archive, visto a Rovereto il 2 settembre nell’Auditorium Melotti. A differenza di Annabelle Bonnéry, che gioca con i sensi senza però cadere nel frivolo intrattenimento, qui si affronta un argomento di stretta attualità. Grazie a un’organizzazione israeliana non governativa, B’Tselem, Centro per i diritti umani dei territori occupati, che ha donato telecamere a volontari palestinesi, Zaides ha potuto selezionare dei video che ritraggono gli israeliani in azioni di guerra e di violenza contro i palestinesi in Cisgiordania e ha iniziato a studiarli minuziosamente. Il danzatore utilizza l’imitazione per potenziare la mediazione. Il corpo come medium che interconnette le immagini al qui e ora, le fa sembrare reali, le rende più vicine a noi, ci fa sentire in modo ravvicinato il dolore degli altri, ciò che vedono e sentono.
Ma il corpo non è l’unico protagonista, il danzatore non si limita a imitare gesti e posizioni dei coloni, non solo si trasfigura carnalmente in un bambino che si esercita a lanciare pietre o che viene preso per le braccia e per i piedi. Per rendere tutto verosimile Zaides si concentra sulle voci, impara le frasi e gli insulti dei coloni ripetendole e registrandole con un microfono e, in questo caotico e inusuale tappeto sonoro, esegue una coreografia che ripercorre le scene brutali viste dall’inizio dello spettacolo. Sembra un gioco violento in cui è Zaides a comandare, col suo telecomando tra le mani costringe a rivedere in loop le stesse immagini o le scaraventa addosso al pubblico quando gioca con le prospettive della telecamera. Ma è anche un modo per farci sentire palestinesi, registi inesperti che con braccia tremolanti cercano di documentare la verità e loro vita giornaliera. E dopo una danza frenetica e ripetitiva, il coreografo si ferma e fissa il pubblico per renderlo partecipe, come sottolineano anche i riflettori sempre accesi sulla platea, per denunciare un quotidiano solo in apparenza lontano.
In un periodo in cui siamo talmente bombardati da immagini violente al punto da essere divenute la normalità, soffermarsi a guardarle pone nuovi interrogativi soprattutto se la gente comune è coinvolta in prima persona e se non si tratta di semplici esercizi intellettuali. Ci si chiede, dunque: se non fosse stato un israeliano a mostrarcele che effetto avrebbe avuto? Quanta influenza ha tale elemento sulla morale comune e sul punto di vista dello spettatore? Che tipo di responsabilità ci si prende nel trasmettere il dolore di un bambino ubriaco o di un uomo detenuto da un gruppo di coloni? Se di verità si sta parlando, il corpo può trasmettere le stesse sensazioni di altro individuo, può essere un contenitore di vissuti? Ognuno ha la sua risposta a queste domande, perché le sensazioni sono personali e non bisogna valicare la linea flebile che inevitabilmente si crea tra noi e gli altri. Mi piace pensare che sia tutto una questione di pelle e di carne o, meglio, della propria pelle e della propria carne. A volte essere sottili non vuol dire essere meno comunicativi, anzi potrebbe essere un modo per lasciare più vie da percorrere allo spettatore, per creare emozioni più profonde che riescano a inabissarsi nell’epidermide fino a sfociare in momenti intimi grondanti di domande.
di Alessandra Corsini
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.