Dopo la prima puntata, con interviste a Claudio Collovà e a Giuseppe Massa, prosegue il nostro speciale sul Teatro Mediterraneo Occupato, che sta lanciando una scuola teatrale con tre diversi indirizzi: scuola per il teatro (Officina studio per il teatro), scuola per le scritture (Opificio incanto) e scuola per il cinema e la televisione (Actor’s Lab).
Opificio Incanto è una scuola biennale con tre incontri settimanali – di tre ore ciascuno – tenuti dai
docenti Beatrice Monroy (sezione scrittura narrativa), Rosario Palazzolo (sezione scrittura teatrale), Sabrina Petyx (sezione scrittura di scena). Durante il primo anno ci saranno anche specifici seminari tenuti da Tino Caspanello, Davide Enia e Filippa Ilardo. Il primo anno della scuola è definito Dell’esplorazione, mentre il secondo Di Creazione, scandendo così in due fasi distinte il processo che porterà alla scrittura dei testi. È stato anche scritto un Manifesto del progetto, attorno alla questione dell’incanto: «Si parte sempre dall’incanto, da una bocca in movimento, da un’altra aperta che ingurgita emozioni: una prassi che ci tiene fermi, respiro corto, e come dei vasi da riempire, diveniamo, o delle lanterne da accendere. L’incantamento arriva subito dopo, un procedimento inevitabile, che produce soprattutto immobilità. E solitamente è il racconto a innescare l’incantamento, e per racconto s’intende qualsiasi forma di narrazione […]». Il percorso prevede che ci si concentri in particolare sul concetto di storia e sull’ispirazione (Monroy) approfondendo lo studio della parola e della lingua (Palazzolo) e il loro incarnarsi sulla scena (Petix).
Il termine ultimo per inviare le candidature è fissato al 10 ottobre 2017. Saranno selezionati 20 allievi e verranno messi a disposizione alcuni posti letto in foresterie al prezzo simbolico di 1 euro. La mail dovrà pervenire all’indirizzo info@tmopalermo.it entro e non oltre il 10 ottobre 2017. In base ai CV e al materiale ricevuto verranno selezionati i 20 partecipanti. L’esito della selezione sarà comunicato entro il 14 ottobre 2017.
Il bando completo si puà scaricare seguendo il link a fondo pagina.
Pubblichiamo a seguire una conversazione con Rosario Palazzolo, drammaturgo, attore e regista, fra i docenti di Opificio Incanto (intervista a cura di Lorenzo Donati, si ringrazia Dario Raimondi).
Iniziamo da alcune parole di Fernando Taviani del 1989 (Uomini di scena, uomini di libro): «Il sistema teatrale rende di regola superflua o addirittura controproducente la ricerca drammaturgica. Si fa un gran parlare del bisogno di nuovi testi, ma nella realtà dei fatti questo bisogno non c’è: il teatro finanziariamente e istituzionalmente più forte si giustifica sempre di più come luogo della messinscena d’una letteratura drammatica preesistente, classica o anche contemporanea, purché preventivamente avvalorata da un prestigio letterario o dal dibattito culturale. Gli spettatori di questo teatro non sono affatto interessati alle novità drammatiche (come invece lo erano quelli del secolo scorso o d’inizio secolo) ma alla cultura del teatro, alla sua tradizione. Sono gli ensembles o i gruppi che operano fuori dal sistema maggioritario ad inventare ogni volta il senso ed il soggetto dei propri spettacoli attraverso una scrittura che però tende ad integrare il lavoro sulla pagina e il lavoro in scena, secondo criteri che non coincidono più con la produzione di pièces regolari». Vi sottopongo tale constatazione, del 1995, chiedendovi quali problemi, quali questioni, quali domande di fondo vi ponete e vi porrete con gli allievi e le allieve, sapendo di attraversare una fase storica che rende «controproducente la ricerca drammaturgica». Sempre che siate d’accordo con questo assunto.
Suppongo che la ricerca drammaturgica nel senso di ricerca drammaturgica abbia coerentemente perso qualsivoglia prestigio di senso, ingurgitata e masticata e sputata nei promemoria dei direttori dei teatri, appiccicata a forza nei quadernetti di alcuni critici prezzolati, e mal posta, disarticolata, essenzialmente inutile in molti dei luoghi deputati alla ricerca drammaturgica, e ciò è avvenuto lentamente, senza fatica alcuna, e del resto una reale ricerca è intrinseca a qualsiasi attività umana e specificarla significa a mio parere sottrarle valore, ovvero finisce per privarla della necessaria ambivalenza – o ambiguità – indispensabile a chi intende vivere di questo lavoro, ché abbiamo già moltissimo da smarcare, noi, in merito agli incasellamenti, come fossimo dei cruciverba illuminati e cantanti e dicenti, e certamente molti tentano di costruirsi una casella precisa, identificativa, nome e cognome, perpetrando con una certa caparbietà il fare per essere, il fare per fare, il fare per sembrare, il fare per ambire, il fare per somigliare, il fare per godersela, e invece credo che occorrerebbe ogni tanto scordarsi la penna, e insomma ciò che voglio dire è che la ricerca, in effetti, in quanto ricerca, in qualunque ambito, non è mai esistita, e se invece sì ha rifuggito qualsiasi modalità del dire, poiché la ricerca è, a prescindere il nome che le diamo, il contesto che le imponiamo, il riconoscimento che le riconosciamo, e pertanto ciò che proporrò agli allievi sarà un percorso accidentato, pieno zeppo di buche, di curve improvvise, di stambecchi che attraversano la strada, e tenterò di offrire l’unico punto di vista che ritengo davvero interessante, quello laterale.
Ancora Taviani, ancora Uomini di scena, uomini di libro: «Ma ancora una volta dobbiamo stare attenti a non considerare le commedie come testi assoluti, quasi fossero della stessa pasta per il semplice fatto d’essere stampati in un libro. Ogni commedia trae il proprio significato anche da modo in cui mette in tensione ciò che si aspetta di vedere con ciò che poi di fatto si vede. Nel teatro acquista un peso particolarmente significativo il rapporto fra ciò che i critici letterari chiamano l’orizzonte d’attesa del lettore o dello spettatore (in parole povere: quel che definisce il genere) e l’opera che conferma o contraddice o addirittura si strappa da quell’orizzonte». La domanda diventa: quale teatro si ha in mente, oggi, quando si trasmette la scrittura? Oltre dunque al che cosa si trasmette, viene da salire ancora più in altro, verso il quale. Quale teatro creeranno le scritture alle quali darete corpo?
È una buonissima domanda, credo, e se avessi un’idea chiara in merito giuro che risponderei con tutti i puntini sulle i e anzi ne metterei qualcuno in più, per giunta, a mo di vezzo, e invece purtroppo non credo si possa sapere oggi, o perlomeno con certezza, quale teatro creeranno le scritture a cui daremo sostegno, e del resto ciascuno degli insegnanti di Opificio Incanto ha in mente una sua idea di teatro, e il sottoscritto, ad esempio, ha smesso di interrogarsi da parecchio e si costringe a una pratica quotidiana libera da catalogazioni che durino più di qualche battuta, e inoltre i partecipanti porteranno il loro bagaglio di percezioni, idee, abitudini e chissà che altro e ci sarà un bel miscuglio, questo posso garantirlo, e certamente per ciò che mi riguarda inizierò dai ferri del mestiere e certamente proseguirò parlando di strutture narrative e dinamiche del testo e sviluppo dei personaggi e certamente farò in modo che gli allievi sviluppino un senso critico e osservativo e dialettico nei confronti di ciò che vedono e sentono e capiscono, ma in effetti ciò che conta davvero è la personale curiosità nei confronti del mondo, una curiosità che significa sensibilità e scelta e pazienza e abnegazione e divertimento e lotta e sortilegio e appagamento e sfumatura e pratica e pratica e pratica, e non avrò nel mio serbatoio di parole antidoti per l’idiozia, purtroppo, per cui se è il momento di consigliare qualcosa agli aspiranti allievi, ecco, è presto detto: allenate l’intelligenza.
Leggendo la presentazione sul bando, si nota che per voi scrittura narrativa, teatrale e di scena condividono l’assunto di partenza di un «incantamento». Una parola ambigua formata da molti strati, con la quale la scrittura deve confrontarsi sapendo di doverla «smontare». La scrittura, oggi, a teatro, deve passare prima di tutto dunque da un disincanto? E come lo si trasmette, come lo trasmettete e trasmetterete voi, nella pratica quotidiana?
Il disincanto è necessario, è l’unico modo che ha l’artista per porsi criticamente nei confronti di ciò che osserva, e questo perché viviamo in un’epoca – o forse è un problema di tutte le epoche – in cui le cose osservate possiedono un significato ancor prima che le osserviamo, come se l’oggetto osservato portasse già nel nome un inventario ben articolato di emozioni, di esperienze, di identità misurate con gli algoritmi dell’ineluttabilità, e pertanto è davvero dura cavarne pensieri nuovi, o perlomeno personali, poiché la memoria dei significati è di per sé una determinazione formidabile, ovvero qualcosa di indotto con lentezza e perentorietà, qualcosa di profondamente incerto eppure così assodato, e pertanto credo che lo scrittore debba innanzitutto osservare le cose deprivandole del significato incarnato, dopodiché analizzarle, e soprattutto metterle in croce, è questo ciò che intendo con disincantare la realtà, un processo che fa traballare le fondamenta sulle quali la società ha eretto le proprie verità, un processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento della distorsione, epperò, affinché lo sguardo acchiappi il mondo senza lasciarsi intrappolare dal già disincantato, occorre allenarsi quotidianamente, innanzitutto partendo dalla tecnica, che a mio parere è già etica, poiché sguazzando nelle figure retoriche, modificando e amplificando i tempi verbali, tentando di far divenire presenti fatti che sono accaduti in passato, si costruiscono panorami pieni zeppi di trucchi da prestigiatore, di soluzioni prodigiose e rischiosissime che sono già una scelta chiara, antitetica, un assalto a ciò che il mondo si aspetta dall’arte, e del resto niente di nuovo, semplicemente abbiamo il vizio di scordarcene: siamo esseri infilati a forza dentro l’evoluzione, e l’evoluzione, a guardarla con gli occhi dell’evoluzione, non è mai piana, è semplicemente un gioco di incastri misteriosi, di strutture creative, e chi scrive è soltanto un maldestro simulatore.
fotografia di Gandolfo Schimmenti
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.