I giovani sono come le automobili, se vanno a schiantarsi in fondo a un burrone non li si aggiusta più. «Un treno deragliato non si tenta di rimetterlo sui binari. Lo si abbandona, lo si dimentica», così la madre di Roberto Zucco condanna il figlio a una damnatio memoriae: «Io ti dimentico, Roberto, io ti ho dimenticato», dice prima che lui la uccida. Roberto Zucco è un testo ispirato a un fatto di cronaca nera italiana (Roberto Succo) che Bernard-Marie Koltès scrive, logorato dall’AIDS, poco prima di morire. È il manifesto dell’onirica follia di un antieroe, la tragedia della solitudine che annienta qualsiasi tabù. Il protagonista elimina i genitori e chiunque gli impedisca di avanzare verso il sole, moderno Icaro condannato a un “terminale” bisogno di libertà. Lo spettacolo non esalta la giovinezza, al contrario ne mostra inquietudini, errori e cadute; eppure la giovinezza è lì, irruenta e tangibile nei corpi dei diciotto attori neodiplomati della Scuola del Teatro Stabile di Torino, guidati nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi dalla coraggiosa regia di Licia Lanera, che porta sul palcoscenico del Teatro Gobetti un esaltato ma lucido ritratto di quell’umanità «straziata e straziante» (cit. Franco Venturini) dei ventenni di oggi, sempre più assuefatti all’orrore.
A cominciare dall’attore che interpreta la “madre senza maternità” di Roberto Zucco (un ironico Jozef Gjura), i personaggi si rivelano maschere spinte al parossismo. La scrittura di Koltès, dal forte afflato anti-naturalistico, colma di lirismo, si evolve qui in un linguaggio carico di audace comicità. Sulla scena nascono figure farsesche capaci di restituire la sottile vena parodistica con cui l’autore tratteggia i personaggi (spiccano nei loro ruoli grotteschi Alfonso Genova, Pierpaolo Preziuso, Elvira Scorza, Andrea Triaca). Di fronte a una scrittura così aperta e chiusa al tempo stesso, in cui l’autore frantuma il senso della narrazione nel suo bisogno di esprimere molto in tempi serrati, Lanera crea un flusso granguignolesco connettendo i vari quadri del testo e lasciandoli fluire l’uno nell’altro in una continua contaminazione.
Zucco (Riccardo Niceforo) è un personaggio scisso tra la sua condizione di liquidità – rimarcata in scena da un costante gocciolio – che lo priva di forma, rendendolo invisibile e capace di passare attraverso sbarre fitte come maglie di un setaccio, e la condizione di rinoceronte, perché «una mano che ha pugnalato, un braccio che ha strangolato non possono essere liquidi. Devono anzi essere forti, pesanti». Il protagonista sente la morte addosso, fugge da solo, come gli eroi, ma «non c’è eroe i cui abiti non siano inzuppati di sangue». Ne deriva che gli eroi di oggi sono tutti criminali, perché il sangue non può passare inosservato, proprio come il branco di rinoceronti che invade la scena all’inizio dello spettacolo: gli attori mascherati si omologano alla figura del “diverso”, sono tutti rinoceronti, sono tutti Roberto Zucco.
La scenografia è semplice, pressoché inesistente, lascia alla suggestiva illuminazione e agli attori il compito di creare lo spazio. Numerose sono le scene corali cariche di simbolismo e di violenta bellezza, dai tableaux vivants dei corpi nudi delle prostitute alla rissa caotica generata dallo scontro con il Colosso, una scena splatter che si trasforma in una danza macabra e frenetica al ritmo di Vengo anch’io. No, tu no di Enzo Jannacci.
L’ultima immagine dello spettacolo mostra Zucco a cavallo di un rinoceronte illuminato in silhouette da un sole africano che abbaglia il pubblico. È ancora in fuga, inafferrabile, ma finalmente libero di gettarsi nel sole per vedere di nascosto l’effetto che fa, per scoprire «la neve che in Africa cade sui laghi ghiacciati».
foto di Andrea Macchia
L'autore
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Laureato in Istituzioni di regia all'Università di Bologna, si interessa di arti performative e di critica teatrale. Collabora con Emilia Romagna Teatro Fondazione, affiancando all'attività di studioso quella di dramaturg.