L’eco dell’acqua e Bliss. Siamo immersi in un mondo sottomarino e fantastico, dove creature flessuose si muovono, si incontrano e si respingono, a tratti con violenza, a tratti più dolcemente. Le coreografie di gruppo si alternano a intensi passi a due e assoli, in cui i ballerini interagiscono con il telo azzurro, icastica cascata di tessuto, che li risucchia, li sostiene o li sputa fuori. L’acqua si fa parola quando una danzatrice, posta sul lato sinistro della scena, recita il Canto degli spiriti sulle acque, la poesia di Goethe che ha ispirato questa creazione. I ballerini si spostano nel caos, in un magma di salti, prese e cadute asincrone, dove ognuno segue la propria strada, mentre la voce narrante ci parla di anima e acqua, di vento e di destino. L’eco dell’acqua è un’opera del 2015 di Philippe Kratz, danzatore tedesco formatosi in Canada, già danzatore di Aterballetto, che abbiamo avuto occasione di vedere sul palcoscenico a novembre 2015 con E-Ink, di Michele Di Stefano. Il lavoro si apre con le migliori premesse: l’intensità dei solisti, l’articolazione degli intrecci di gruppo e l’interazione con il fondale ci coinvolgono, stupiscono e tengono con il fiato sospeso. Nella seconda metà, tuttavia, la coesione della pièce in parte si sfalda, si ha l’impressione che sia stata messa troppa carne sul fuoco e che si sia persa l’atmosfera dell’inizio. Eppure forse il brusco finale, con il sipario che si chiude subito dopo che il telo azzurro ricade sul palcoscenico, lasciando allo spettatore appena il tempo di scorgere cosa si eleva sopra di esso, ha il merito di farci riflettere, a posteriori, sul legame fra il movimento del corpo e il testo della poesia, e in generale sul senso dell’uomo. [caption id="attachment_837" align="alignnone" width="640"] Bliss[/caption] Bliss, il secondo pezzo presentato, è invece di tutt’altra natura. Creato nel 2016 dall’ex danzatore del Nederland Dance Theater Johan Inger, coreografo affermato presso lo stesso NDT, il Cullberg Ballet e da qualche tempo attivo ad Aterballetto, è fondato sul rapporto dei ballerini con la musica. Il Köln Concert di Keith Jarrett offre agli interpreti una linea melodica fatta di contrappunti, staccati, sonorità in maggiore che permette loro di esprimersi ognuno secondo la propria dinamica, ma sempre in modo leggero, frizzante, gioioso. Il sipario si apre su un palcoscenico ancora in allestimento, o meglio, in dis-allestimento, giacché i tecnici sono all’opera per togliere i nastri adesivi e fissare la pavimentazione bianca. Le quintature sono state smontate, non vi sono scenografie né effetti di luce: tutto è affidato ai danzatori. Sulle note scoppiettanti del piano e seguendo per lo più linee diagonali, a coppie, a terzetti o a piccoli gruppi essi vivono il palcoscenico, camminandovi, correndovi, scivolandovi, giocandovi. I vivaci colori dei vestiti, tutti diversi, contribuiscono a rendere allegra l’atmosfera del pezzo, che nel finale vede l’arrivo, a uno a uno, di altri interpreti: è un crescendo di corpi, un’esplosione di energia, che si consuma con l’uscita a spirale di tutti i danzatori, tranne uno. Uscendo da teatro permane, oltre alla scoppiettante musica di Jarrett in testa, la sensazione di bliss, ovvero beatitudine e felicità donataci da questo pezzo
Marta Buggio
]]>L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.