Odradek è una creatura somigliante a un rocchetto di filo, piccolo e velocissimo. La sua voce ricorda il frusciar di foglie cadute e il suo nome non ha alcun senso. Misterioso protagonista di un racconto di Kafka, Odradek, per la sua insensatezza metafisica e per essere quasi una parola tramutatasi in cosa, ha molto affascinato grandiosi maestri del linguaggio da Borges a Landolfi. Adesso è il titolo del nuovo spettacolo di Menoventi, che ha debuttato al Ravenna Festival. Odradek è il nome di una multinazionale del delivery, come Just Eat, Glovo… In un interno domestico, occupato da un grande divano e da una rumorosa televisione che trasmette programmi dalle lingue incomprensibili, suona il campanello e una giovane donna (Consuelo Battiston) accoglie il fattorino della Odradek (Francesco Pennacchia), che le consegna una scatola con del cibo. Nulla di strano, una scena che, soprattutto a partire dal periodo pandemico, è diventata familiare, se non fosse per gli artificiali e asettici colori delle pareti, per quella folta moquette a terra che rende ovattata l’atmosfera, per i volti straniti dei personaggi e per quello stridente campanello che quando suona innesca un fastidioso contatto con la lampadina difettata della stanza e con l’audio della televisione, generando luce intermittente e suoni sovrapposti, che non preannunciano nulla di buono. La scena si ripete più volte, secondo un ritmo che Menoventi aveva utilizzato proprio nel loro primo spettacolo, In festa, quasi vent’anni fa. In quel caso le scatole che arrivavano in casa erano pacchetti regalo con dentro un biscotto o biglietti d’auguri di invitati invisibili o incarnati in manichini senza gambe e braccia. La festa diventava l’espressione mesta di un disagio altrimenti inesprimibile. Un teatro dell’assurdo domestico con velature punk, soprattutto quando si arrivava a un punto di rottura e la scena, così come il piccolo castello costruito con un centinaio di savoiardi, si autodistruggeva, tutto sotto l’incombente presenza di un semaforo, che sembrava capace di regolare il ritmo della vita. Vent’anni dopo l’atmosfera è mutata, anche se riemergono elementi simili, come la citazione di una poesia di Hans M. Enzensberger: «in certe interminabili sere, /un’occhiata dall’altra parte, /alla finestra illuminata /dove vivono altri, /e la vaga sensazione /di essersi persi qualcosa».
Ogni volta che il fattorino entra in casa porta una scatola con dentro un oggetto che non è stato acquistato, ma che incredibilmente corrisponde a un desiderio inespresso dalla padrona di casa. La situazione fantascientifica non fa altro che estremizzare qualcosa che è ormai entrato nella vita quotidiana di ognuno. Ogni ricerca su internet diventa immediatamente pubblicità personalizzata. L’occhio di questo Grande Fratello del commercio è anche un orecchio finissimo. A quanti sarà capitato di parlare di depuratori dell’acqua del rubinetto, di dolori alla spalla e gonfiori intestinali e vedersi apparire sul cellulare le pubblicità di filtri a basso costo, di terme terapeutiche e di carbone vegetale? Nello spettacolo di Menoventi e nella drammaturgia di Gianni Farina tutto questo viene spinto fino all’eccesso e il fattorino che porta la merce addirittura prevede il momento esatto in cui gli oggetti di casa si romperanno e dovranno essere sostituiti. Secondo un procedimento molto caro a Menoventi, il paradosso viene dilatato e tradotto in drammaturgia, per una rappresentazione che mostra una realtà deformata. Di fronte a questo Odradek lo spettatore spremendosi le meningi rimane stupito, come se vedesse un cucchiaino piegato da una mente prodigiosa (a un certo punto in scena improvvisamente dal nulla esplodono dei bicchieri, perché hanno concluso il loro ciclo vitale…). La distopia è, come nel precedente lavoro Docile (2019), dove si assisteva alla lotteria della vita (e al limbo-prigione di una generazione), calata in un presente già fantascientifico, determinato completamente da intelligenze artificiali e piattaforme del consumo.
Come una parabola dei nostri giorni Odradek ha il merito prima di proporre uno stile a tratti umoristico, secondo una tradizione in Italia poco battuta, che può ricordare il Primo Levi fantascientifico delle Storie naturali o qualche testo bizzarro di Augusto Frassineti, e poi di ricordarci, a differenza di tanti lavori oggi alla moda, che le trappole del desiderio sono infinite e labirintiche. E labirintico è lo spazio sempre fisso dello spettacolo, ma animato da luci colorate che lo trasformano e da entrate e uscite sorprendenti e un po’ magiche. I due protagonisti, restituiti molto bene da Battiston e Pennacchia nel loro residuo di umanità avvolto in un involucro di alienazione, a un certo punto alzano lo sguardo in cielo e si sorprendono ad ammirare la bellezza delle stelle. D’altronde l’etimologia di “desiderare” rimanda proprio a un sentire “la mancanza di stelle”. Il modo migliore per far capire, almeno per un attimo, che il desiderio autentico è un movimento verticale che ha che fare con le altezze del cielo e le profondità insidiose della terra.
L'autore
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Critico teatrale, è tra i fondatori di Altre Velocità e collabora con la rivista Gli Asini. Dal 2004 conduce una rubrica radiofonica di attualità teatrale su Rete Toscana Classica. Ha curato svariate pubblicazioni nell'ambito del teatro ed è stato codirettore del Festival di Santarcangelo per il triennio 2012-2014 e presidente dell'Associazione Teatrale Pistoiese.