Questo articolo è frutto della Scuola estiva di giornalismo culturale in Romagna, organizzato da Altre Velocità, che attraversa il Festival di Santarcangelo 2024.
Anche se il Lavatoio, una delle sale più propriamente teatrali a Santarcangelo, fa scaturire tra il brusio iniziale qualche parere rasserenante sulla comodità delle sedie rispetto agli altri spazi del festival, prima dello spettacolo null&void di Agata Siniarska si inizia già a percepire una strana atmosfera. Il palco è proprio in fondo, raso terra, e una lunga scalinata quasi ripida lo connette alla strada. Solo chi è seduto nelle prime file riesce a scorgere qualcosa di altrettanto nero nell’oscurità che avvolge indifferentemente la platea e la scatola scenica. Un lungo patchwork di materiali che potrebbero variare dal tessuto alla plastica, di tutte le sfumature dal grigio al nero, troneggia al centro. Sotto di esso forse qualcuno lo anima, se di anima si può parlare. La luce che piano piano dovrebbe svelare qualche contorno di significazione, al contrario, rimane schiava dell’oscurità. Spari, boati, esplosioni, crolli, suoni di distruzione riecheggiano per tutto lo spazio avvolgendolo e i numerosi fari su quella specie di blob ne ampliano la portata, non concedendo nessuno scampo o possibilità di sopravvivere, annullando ogni traccia di vita tra le poltrone. La fine è sopra o sotto il gigante patchwork? E sta coinvolgendo solo il Lavatoio o anche i ristoranti sulle teste degli spettatori? Qualcosa lì sotto si muove e per fortuna è destinato a spegnersi. Per poi riemergere.
Strisciando, riavvolgendosi su se stessa, accennando pezzi di essa allo sguardo perso dei presenti, qualcosa nasce oppure ricompare dopo tanto tempo oppure ancora non è mai andata via. Mutilazioni, ferite, liquidi, muscoli: niente è vivo o è morto in ciò che viene fuori. Non ne si può cogliere un lineamento, una struttura, vagante a carponi né avanti né indietro né di lato. Solo spasmi e tremori su un essere che non trova il suo posto, se un posto ce l’ha. Forse nello sforzo immane di far uscire qualcosa da lì: un urlo in mezzo a tanto rumore assordante. Eppure nulla può fermarla apparentemente. Nel buio del Lavatoio è lei che comanda, mentre rimangono seduti gli occhi vulnerabili della platea. Potrebbe attaccare da un momento all’altro, magari non si uscirà più da lì. La luce, quando c’è, acceca e persiste la perdizione. Se quella cosa ha una casa, forse è lì che vuol ritornare, quando sembra quietarsi provando a rimettersi in sesto, a bilanciare il peso su se stessa mentre finalmente il nero e il grigio e il bianco dei fari virano a un blu elettrico e due lucine rosse danno prova di uno sguardo. Ma non è la percezione cromatica che darà illusione di un ritorno all’ordine, perché quel blu e quel rosso non sono umani. E anche se lentamente la si vede scomparire sul rassicurante tema principale del film Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (Apichatpong Weerasethakul, 2010) è impossibile immaginare che la performance possa essersi conclusa; tutt’intorno il fiato mozzato.
Agata Siniarska, artista di origine polacca di base a Berlino, ha un particolare interesse verso l’ambito coreografico che vede costitutivamente il corpo umano come prima lingua, istintuale e ragionata. Ma ciò non le impedisce di riflettere e lavorare su ciò che di umano non ha traccia; almeno apparentemente. Il perturbante che crea Siniarska è al servizio del privato montaggio dello spettatore, che può divorare il desiderio di scuotimento più in superficie o al contrario nutrire una riflessione più che urgente sull’antropocentrismo con cui la specie sinora ha interpretato il mondo. È facile perdere la bussola di fronte a quei suoni, quelle luci, quell’essere davanti al quale si erige un muro di incomprensione e di annichilimento. C’è una metamorfosi, c’è una morte che segue una rinascita? Dove va a finire l’essere? E si è sicuri che finisca da qualche parte? L’ambiguità costruita da Siniarska, che lei stessa rivendica come artista e nelle sue opere, riconduce l’umano a qualcosa che sembra non appartenergli. Il niente e il vuoto, in minuscolo, scritti di seguito senza spazi e pronunciati tutto d’un fiato, liquidano l’essenza stessa delle cose dubitandone. Scoprendo così che magari il niente e il vuoto sono proprio dentro di noi, siamo noi. Sempre che non possa risultare una valida alternativa al nostro presente.