Gli spettacoli di Rabih Mroué hanno sempre qualcosa di ineffabile, di indefinito. Nonostante l’apparente semplicità della messa in scena (The Pixelated Revolution, visto di recente al MAST di Bologna durante Vie festival, e Riding on a Cloud, riproposto al MAXXI di Roma nell’ambito di Romaeuropa Festival, per esempio), che corrisponde al formato del “teatro-conferenza”, non è mai semplice afferrare del tutto la dimensione in cui si svolgono le vicende narrate sul palco: siamo sempre a cavallo fra storia e memoria, fra dramma e divulgazione, fra lacerto biografico e saggio teorico. Lo sfondo, però, è ben concreto e rimanda a episodi che hanno infiammato il Medio Oriente e non solo, dalla rivoluzione siriana del 2011 alla guerra civile in Libano (paese da cui proviene Mroué).
Il suo è un teatro che parte spesso da testimonianze preesistenti alla performance, non solo quelle orali dei personaggi, ma soprattutto video, filmati amatoriali, fotografie e registrazioni audio. Testimonianze che sono state prodotte con finalità tutt’altro che teatrali, ma che sulla scena vengono dissezionate e “messe in ordine” affinché ci parlino da un’altra prospettiva, da un punto di vista inedito.
Vorrei partire proprio da questo elemento delle testimonianze audio-visuali. Da cosa nasce la volontà da parte tua di lavorare su questo tipo di materiali e quand’è che, dal tuo punto di vista, video, audio e immagini fotografiche si trasformano in “teatro”?
«Ci sono differenza fra spettacolo e spettacolo. Diciamo che per The Pixelated Revolution la decisione di lavorare con filmati video amatoriali di bassa qualità, girati coi propri cellulari dalle persone che manifestavano in piazza durante la rivoluzione siriana del 2011, nasce da una mia ossessione personale. L’ossessione per quelle immagini documentarie in cui viene rappresentata la morte, spesso la morte dello stesso autore dell’immagine: ogni volta che mi imbatto in questo tipo di testimonianze, le raccolgo e le catalogo, ci rifletto sopra, e a volte non le reputo degno di maggiore interesse, altre volte ne compongo uno spettacolo. È qualcosa che faccio da molti anni.
Certo, c’è anche molta filosofia e sociologia che parla e riflette a partire da questo tema. Perciò non credo si tratti di materiale che in sé sia sufficiente per comporre una performance: capita però che a volte mi imbatta in video e testimonianze che sono per me inusuali, che mi mostrano la realtà da “angolo diverso”. Ecco, è lì che mi metto a lavorare».
Consideri il tuo un teatro politico?
«Ogni atto artistico è un atto politico, specialmente se parliamo di teatro. Non c’è alcuna via di fuga possibile dalla dimensione politica. Tuttavia, credo debba essere tracciata una distinzione fra l’occuparsi di “fatti politici” nei propri spettacoli e l’agire politicamente in scena. Si tratta di due cose diverse. Generalmente, nelle mie performance utilizzo materiali che hanno a che fare con avvenimenti in tutto e per tutto “politici”, ma non si tratta di testimonianze, immagini e suono legate all’attualità. Il mio interesse nei loro confronti non è dettato dall’attualità. Per questo, sento di poterli mettere in scena anche a distanza di uno, due, dieci anni dalla prima volta senza che il senso dello spettacolo ne esca modificato.
Le questioni che cerco di indagare, cioè, trascendono l’occasione specifica attraverso cui le racconto. Per fare un esempio, il tema di video in cui si verifica un contatto visivo fra la vittima e il proprio assassino, è un tema già presente in alcune testimonianze relative al colpo di stato in Cile del 1973, dove appunto troviamo del materiale audiovisivo in cui un cameraman viene ucciso da un colpo di pistola. L’altro elemento che mi interessa è come, in questi casi, la vittima rimanga sempre fuori dalla scena, noi vediamo gli eventi attraverso il suo punto di vista. Dal 1973 al 2011: le domande che provo a pormi nelle mie performance sono sempre lì, attraversano i decenni».
In Riding on a Cloud queste domande vengono anche filtrate dalla memoria privata di chi sta in scena e dalla memoria collettiva di una comunità…
«In realtà la memoria mi interessa poco come tema in sé. Anzi, credo che quello che chiamiamo “memoria collettiva” implichi anche una certa dose di violenza e di censura: è proprio attraverso l’interdizione di alcuni ricordi o l’imposizione di alcune interpretazioni rispetto alle altre che si crea un senso comune rispetto agli eventi. Io sono molto più interessato alle “narrazioni”, o per meglio dire a come l’oggettività e la soggettività delle narrazioni e delle storie personali e collettive si mescolino in continuazione. Non si può separare in maniera definitiva la realtà dalla finzione.
Voglio dire, la memoria – anche se non corrisponde alla verità fattuale degli eventi – ha sempre qualcosa di concreto. Rappresenta una realtà tangibile per chi la custodisce. Nei miei spettacoli cerco di esplorare questo confine, questa “linea di mescolanza” in cui la memoria è solo un effetto secondario di come ciascun testimone di un evento prova a narrare la propria storia o quella delle altre persone coinvolte».
Quindi non c’è una regia esterna? Qual è il rapporto che intrattieni con testimoni e testimonianze nel corso della costruzione dei tuoi spettacoli?
«È un rapporto di collaborazione e ascolto, ovviamente. Ma una “regia” o comunque una visione terza che organizza il materiale e prende delle decisioni definitive c’è sempre, ci deve essere. Il mio obiettivo non è quello di ricercare empatia diretta con il pubblico o di presentare le storie attraverso un filtro “pietistico”. In Riding on a Cloud mio fratello, che è in scena ed è l’oggetto della storia, a un certo punto esplicita il fatto che sarò io a scegliere cosa finirà nello spettacolo e come. Ecco, quello vuole essere un avvertimento per lo spettatore: tutto quello che accade qui è finzione, c’è sempre qualcuno “dietro la scena” che decide cosa vedi e cosa no, che orienta la tua visione».
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.