È credibile una Piattaforma nazionale della danza biennale ma che apre un bando di partecipazione a metà luglio, chiudendolo dopo poco più di un mese? È credibile una piattaforma che vuole fotografare il panorama attuale ma che nella vetrina non presenta artisti come Virgilio Sieni, MK, Dewey Dell, Alessandro Sciarroni, Cristina Rizzo solo per citare alcuni assenti? Ci si può fidare di un’iniziativa che ambisce a «promuovere e diffondere la produzione coreografica italiana nel più ampio mercato internazionale, favorendo la conoscenza delle eccellenze italiane presso accreditati operatori stranieri e sviluppando gli scambi tra artisti e operatori per una maggiore internazionalizzazione della scena», ma che è riuscita a portare in Italia poco più di dieci stranieri su un’ottantina totale? Ci si può fidare di un Raggruppamento Temporaneo di Operatori sapendo che questo si riunisce in virtù della comune adesione all’A.D.E.P. (Associazione Danza Esercizio e Promozione in seno a Federdanza-Agis), di fatto escludendo i molti che sostengono e programmano la danza ma che non sono interessati ad aderire a un organismo? Ci si può fidare di organi di rappresentanza che non hanno saputo incidere, non hanno saputo contrastare l’attuale dispersione di risorse, l’inefficacia normativa, il conservatorismo museale tipico del nostro paese? È infine credibile una piattaforma che livella tutto, che non fa nessuna distinzione fra percorsi tradizionali, tradizionalistici e di ricerca, che non sottolinea l’esperienza creativa dei gruppi, come se chi opera da trent’anni avesse le stesse credenziali di chi ha fondato una compagnia da 24 mesi?
No, è molto difficile dare credito al tentativo della NID Platform, organizzato fra Brindisi e Lecce dal 22 al 25 novembre scorsi grazie all’impegno logistico del Teatro Pubblico Pugliese. Tuttavia è necessario osservare da vicino il movimento che ha fatto nascere il progetto, nato da un antecedente lo scorso anno a Torinodanza, quando si organizzò una piattaforma nazionale quasi di nascosto, chiamamando artisti e operatori sulla base di scelte poco condivise. Organizzare una “piattaforma” con l’obiettivo di migliorare lo stato di un’arte poco visibile è obiettivo lodevole, ma pure fondato su un presupposto controproducente, e che in Italia fatichiamo a scrollarci di dosso. Se infatti da un lato vi sono alcune strutture ormai abituate a discutere di arti sceniche, per le quali sono al centro le ricerche e non tanto le classificazioni disciplinari, dall’altro ci si confronta con un panorama legislativo incapace di riconoscere il nuovo, problema ormai endemico. Ci confrontiamo con una legislazione che ancora parla di lirica, prosa, danza, circhi e spettacolo viaggiante, e con un panorama di operatori di settore un po’ costretto un po’ avvezzo ad adattarsi. In tale situazione, e se non si punta a promuovere un discorso che sia anche culturale e non solo di mercato, promuovere una piattaforma rischia di corroborare la storica condizione di un’arte esclusa dai maggiori finanziamenti e che va assistita, aiutata a guarire, a diventare grande, e per questo da rinchiudere in una riserva o piattaforma al riparo dalle maree. Non si tratta, in questa sede, di mettere in discussione l’operato di un intero settore, nel quale il lavoro di alcune strutture è in ogni caso prezioso. Piuttosto è importante discutere sugli strumenti che vengono messi in campo per favorire un cambiamento, strumenti che non possono che essere collettivi e che per adesso appaiono fuori fuoco. Se si guardano infatti le azioni di alcune realtà prese singolarmente, può infatti sorgere la sensazione di un panorama che si sta spostando, che sta cercando di interrogarsi sulle arti e sul pubblico. Ma ogni volta che si tentano progetti condivisi è molto difficile ascoltare discorsi di senso, ed è quasi impossibile vedere azioni che escano dalle pur giuste rivendicazioni di categoria o di mercato. E su questo, putroppo, c’è una grande comunanza di intenti, che si parli di tradizione o di contemporaneo.
In un clima siffatto, non stupisce che i grandi coreografi europei nel nordeuropa dirigano i maggiori teatri delle loro città, e da noi non non partecipino alle piattaforme pur producendo opere per le Capitali Europee della Cultura (sempre per citare Sieni, a Marsiglia nel 2013). Degli spettacoli presenti alla vetrina proveremo a discutere in separata sede. Qui ci preme concentrarci sugli “Stati generali della danza”, incontri culminati con un question time rivolto al direttore generale dello spettacolo dal vivo, Salvatore Nastasi.
Gli Stati generali: cronaca di una rappresentazione
Gli incontri miravano ad approfondire problematiche del settore, mettendo in luce nodi ed eccellenze, azioni presenti e future. Si è parlato moltissimo: in forma di brevi relazioni, si sono alternati al tavolo oltre una ventina di addetti ai lavori, che hanno affrontato aspetti diversi: dalle residenze alle normative, dalla tradizione alla lirica, dalla commissioni consultive ai circuiti. Si è parlato molto ma non si è discusso per nulla, dal momento che ogni nota che contenesse accenni critici è rimasta nell’aria, non è stata né sviluppata né raccolta. Sarà anche perché agli stati generali erano presenti pochissimi artisti inseriti nella vetrina, probabilmente impegnati nei montaggi. Anche i presenti, non essendo previsto nessuno spazio di dibattito o domanda, si sono limitati ad ascoltare.
Il primo giorno si parla della Danza nel contesto dello spettacolo dal vivo, sociale ed economico: Giulio Stumpo, economista, suggerisce che l’agenda politica di cui si dota la piattaforma arrivi a dettare modi e tempi alla politica. Laurent Van Kote, delegato per il ministero della cultura francese, descrive l’articolato sistema d’oltralpe e introduce il paradosso di una legislazione che ha “creato” troppi artisti, e ora si trova con un’abbondanza difficilmente gestibile (e internazionalmente poco conosciuta, aggiungiamo noi). Si elencano problemi noti. Maurizio Roi, presidente di Ater e vice di Agis, sottolinea che i vari ministeri non sono in grado di comunicare, e che il finanziamento pubblico al settore si esaurisce quasi interamente in costi di personale. Si suggeriscono strade, come la necessità di far cooperare le strutture che operano nella formazione, nella diffusione e nella trasmissione della danza (Anna Lea Antolini di Romaeuropa). Nella prima giornata si tocca forse il punto più basso concependo un momento chiamato La voce dei coreografi, con Luciano Cannito, Massimo Moricone, Mauro Astolfi, Giovanna Velardi e Francesca Pennini chiamati a intervenire liberamente a partire dai loro lavori, come a dimostrare l’apertura di un raggruppamento che considera gli artisti, salvo poi impedire agli stessi di entrare nel merito di questioni organizzative e legislative (tralasciando qui di commentare la rappresentatività del panorama italiano che esprimono gli invitati, Pennini esclusa). Si esce da questa prima giornata con la classica sensazione dei discorsi che girano un po’ a vuoto, più che altro progettati per fabbricare un rappresentazione di addetti ai lavori che si confrontano. Ma la domanda di fondo viene elusa: chi dovrebbe mettere in pratica le proposte fatte? E chi può risolvere i problemi? In Italia siamo tutti bravissimi a descrivere, e a suggerire soluzioni apparentemente in grado di cambiare le cose. Allora perché non cambia mai nulla? E perché dovremmo credere che adesso si stia per cambiare?
Il giorno successivo si parte con il bell’intervento di Ugo Bacchella di Fitzcarraldo, che ci ricorda prima di tutto come i tagli non producano più da tempo proteste nella società civile, segno di una non-considerazione profonda. Pensando al futuro, e considerando anche uno spirito dei tempi che privilegia l’impresa e non l’arte (come indica il nuovo programma europeo Creative Europe 2014/2020), Bacchella suggerisce di creare sinergie spurie, in cui le compagnie di arti sceniche indipendenti provino a cooperare con progetti di erogazione di servizi comunitari (le tv partecipate, la gastronomia a chilometro zero). Per fare questo, dice Bacchella, è necessario rinsaldare i legami con i territori e aprire le strutture pubbliche e semipubbliche alle compagnie indipendenti. Pier Giacomo Cirella di Arteven rivendica un ruolo di primo piano per i circuiti: devono fare tutto, dice, hanno le carte in regola per farlo. La sala è scossa da borbotii e risolini, evidentemente chi dirige gli stabili o le fondazioni non la pensa così, ma nemmeno le provocazioni fanno nascere un dibattito. Patacca del Teatro Verdi di Pisa spiega le sue strategie per «favorire il pubblico» (sic): creare linee guida tematiche fra stagione lirica e di prosa. Santini (Amat) sottolinea l’unione di diversi che contraddistingue Anticorpi XL, operatori che si sono scelti per necessità e non per convenienza, mentre Natalia Casorati di Interplay, nel descrivere i rapporti con l’estero creati negli anni a Torino dalla sua associazione Mosaico Danza, racconta di aver messo al centro una domanda di fondo: questa mia azione serve al territorio?
Si proseguirà discutendo di residenze, della necessità di una multidisciplinarietà, di quadri legislativi regionali che dovrebbero favorire la nascita di un sistema, come sta accadendo in Toscana e come è accaduto in Puglia con i Teatri Abitati (e anche su questo il tempo ci dirà della reale bontà di un progetto che ha destato molto clamore e che ha messo a disposizione una buona quantità di risorse, ma che lascia la sensazione di finanziamenti piovuti dal cielo con il rischio di bruciare anche anche le migliori intenzioni). In tale marea di esternazioni, in cui è davvero complicato trovare un filo comune in mezzo a rivendicazioni che suonano di corporativismo sindacale, non possono che risultare come una boccata d’aria le parole di Umberto Angelini, sovrintendente del Teatro Grande di Brescia e direttore di Uovo. Senza risorse specifiche per la danza, Angelini ha programmato a Brescia artisti come Saburo Teshigawara, riempiendo il teatro. Scegliere si può, dice Angelini. E non servono poi tante parole per farlo.
Si arriva così al question time, che si rivela presto una discussione interna sul prossimo decreto ministeriale, atteso per l’anno nuovo. Si punta a raggiungere il 3% del fus per la danza (e non certo a mettere in discussione riparti novecenteschi). Si vogliono eliminare le voci di spesa per la promozione, salvando quelle per la circuitazione e la formazione del pubblico (senza tentare un’autocritica su un sistema che distribuisce pochissimi e forma ancora meno). Si afferma che molte compagnie non fanno domanda, e che il compito degli artisti è «inseguire» i legislatori. Si discute di formazione dei danzatori, di come inquadrare le tante scuole di danza. Sul finale emergono domande sul “contemporaneo”, settore ignorato dalla discussione. «Fateci delle proposte, le valuteremo», dice Nastasi (tempo totale sul contemporaneo: 1’30”).
Dopo un question time senza domande che non fossere irrigimentate in un foglio prestampato, vale la pena provare a metterne giù alcune, da rivolgere un po’ a tutti in vista di tentativi futuri. Domande rivolte primariamente all’RTO e agli operatori in generale, agli ipotetici interlocutori ministeriali, ma anche agli artisti che c’erano e a quelli che hanno scelto di non esserci.
- Perché una piattaforma nazionale sceglie di non tentare una discussione culturale? Perché non si prova mai a domandarsi di che cosa stiamo parlando quando parliamo di danza?
- Perché gli artisti del “contemporaneo” italiani, pur rappresentando le arti sceniche nazionali in Europa, da noi faticano a circuitare?
- Perché non si vuole riconoscere, in Italia, l’esistenza di tante “danze”, con i relativi pubblici?
- A chi conviene che la voce “danza” faccia reparto a sé nel Fondo Unico per lo Spettacolo?
- Perché la discussione, anche quando raggiunge livelli di descrizione credibili, deve essere sempre e comunque corporativistica, legata a difese di categorie?
- Perché non si riesce, in Italia, a sganciarsi da riparti ministeriali tradizionalistici? Perché chi invece opera nelle arti “che vivono” si presta a discussioni che etichettano tali arti nella categoria “contemporaneo”, relegandosi a nicchia della nicchia della nicchia? Perché non si tentano quasi mai discorsi massimalisti, dicendo che ciò che viene chiamato “il contemporaneo” sono la danza e il teatro che in Italia meritano di essere conosciuti e di circuitare?
- Perché, anziché evocarli, non si tentano percorsi sperimentali in cui provare ad avvicinare gli interlocutori privati alle compagnie di produzione, concependo l’ente pubblico come un intermediario? Perché gli Stati Generali, e la piattaforma, non hanno previsto la presenza di alcun rappresentante di fondazioni bancarie o di imprese?
- Perché non immaginare che i teatri di tradizione, i corpi di ballo, le fondazioni lirico-sinfoniche possano passare sotto voci di finziamento legate alla conservazione dei beni culturali, e non allo spettacolo dal vivo?
- Perché il pubblico dei teatri comunali affolla la tradizione e diserta il contemporaneo? E perché questo dato è usato invariabilmente come arma o scusa per non cambiare, anziché come sfida per mutare?
- Perché, infine, è così difficile creare piccoli fronti di azioni condivise fra gli artisti, gli unici forse in grado di dare peso culturale, e quindi politico, ad azioni che così presentate restano soltanto di categoria?
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.