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(bozzetto di scena di Teodoro Bonci del Bene)
(bozzetto di scena di Teodoro Bonci del Bene)

La classe e lo sciamano. Un carteggio con Asja Lācis

di Agnese Doria, Teodoro Bonci del Bene

Le pagine di diario che state per leggere sono dedicate a Asja Lācis regista, pedagoga, intellettuale che grazie allo strumento del teatro tanto aveva condiviso e costruito insieme ai bambini orfani e senza tetto della Russia e della Lettonia sovietiche degli anni 20 del Novecento. Figura di ispirazione nell’intendere un lavoro con l’infanzia capace di serietà, profondità e vitalità, è stata per Teodoro Bonci del Bene e Agnese Doria una mentore ideale cui rivolgere alcune domande durante i giorni di residenza da AtelierSì “40 giorni e 40 notti”, ispirata all’incidente aereo avvenuto in Colombia a maggio del 2023.

Cara Asja,

in febbraio ho avuto l’occasione di accompagnare Teodoro Bonci del Bene a conoscere la classe 3° A delle scuole elementari Avogli. Teodoro aveva espresso il desiderio di incontrare una classe per mettere sotto assedio un racconto su cui sta lavorando. Un desiderio coraggioso e folle il suo. Quelli di seguito e qui accanto sono alcuni aspetti affiorati dall’incontro e dall’osservazione delle reazioni di bambini e bambine nel corso di tre appuntamenti a scuola e uno finale a teatro, da AtelierSi.

Cara Asja,

Sono stato in residenza da AtelierSì per lavorare a una storia. Parla di quattro bambini che si sono persi nella foresta Amazzonica per 40 giorni dopo un disastro aereo, e sono sopravvissuti. Sono sicuro che questa storia ti sarebbe piaciuta moltissimo, tu forse ci avresti aiutato a capire che cosa ci insegna. Alla fine della residenza c’è stato l’incontro con un gruppo di curiosi a cui ho raccontato la storia, e con cui ho conversato sul significato che ha per me questo lavoro, e il modo in cui ho lavorato in teatro. Durante questo incontro Jason, che ha otto anni, mi ha chiesto se ho mai incontrato uno sciamano. Ho risposto la verità, che non ne ho mai incontrato uno. “E allora come come fai a raccontare una storia in cui il protagonista è uno sciamano?” Grazie Jason. È proprio una bella domanda.

Della cecità del vedere

Il primo giorno in cui Teodoro ha incontrato la classe, l’ha fatto da Shamael. Shamael è uno sciamano, indossa una pelle d’animale e un diadema calato sotto l’arco sopraccigliare in modo che due foglie dorate gli coprano gli occhi. In questa condizione di cecità ha cercato la via per entrare in 3°A. Il corridoio per arrivare in classe è molto lungo, i bambini e le bambine hanno potuto seguire l’arrivo di Shamael dalla vetrata dell’aula che vi si affaccia. Questa sua condizione di cecità subito attira due reazioni: c’è chi se ne fa carico con gesti e parole di cura, chi invece ne approfitta per infliggere, impunito, qualche scherzo. Comunque sia tutti gli stanno addosso, talmente prossimi da non concedere l’agio ai gesti e alle parole di potersi manifestare. Teodoro, uscendo dal personaggio, riconosce ben presto l’importanza di andare a co-costruire insieme a loro il territorio di gioco e la giusta prospettiva di sguardo: possibile regola di ingaggio capace di definire lo spazio entro cui il racconto possa rivelarsi e porsi al vaglio del loro sapiente sguardo critico. Al netto dello sgomento, mio e di Teodoro, di stare di fronte agli occhi dell’infanzia in modo così feroce e crudo, questo primo incontro ci ha dato strumenti per vedere con chiarezza le traiettorie del nostro lavoro futuro, Shamael lo aveva intuito prima di noi dicendo alle bambine e ai bambini: “L’ascolto può essere molto pericoloso e può fare anche molta paura”. Ascoltare per ascoltarsi. Ascoltare e stare a vedere che succede. Attendere che qualcosa affiori.

Davi Kopenawa, leader sciamano della comunità Yanomami di Watoriki, nell’Amazzonia brasiliana, dice che gli sciamani servono a fare scendere le immagini. Gli sciamani, quando una persona è malata, fanno scendere le immagini degli spiriti Xapiri e li mandano a cercare l’immagine della persona malata. È malata perché gli spiriti malvagi Newari l’hanno rubata e poi l’hanno nascosta. Durante il primo incontro con la classe di Jason ho passato un’ora intera ad occhi chiusi. Indossavo una pelle di leopardo, un paio di occhiali d’ottone ricoperti d’ oro, e dietro gli occhiali avevo due grossi pezzi di scotch nero sulle palpebre. A un certo punto ho sentito le mani dei bambini nelle mie. Mi hanno condotto fuori dalla classe, un raggio di luce che entrava dalle grandi vetrate dell’atrio si è infilato sotto gli occhiali e mi ha abbagliato. Come se gli spiriti Xapiri mi avessero preso per mano e mi avessero condotto altrove, in un luogo dove non c’è altro che luce e voci di bambini.

Dell’ascolto

Da un frammento di ascolto collettivo affiora il tema della paura: questo personaggio misterioso, difficilmente inquadrabile e decisamente poco raccomandabile, suscita sentimenti contrastanti nel gruppo classe, all’interno dei quali serpeggia un sentimento di paura. Nasce: “Vieni pavura vieni” un motto cantato e ritmato dal rumore dei passi. Invece che allontanare quel sentimento, lo si accoglie come occasione, come motore per azioni future. Nel corso del secondo incontro Teodoro, con antenne vibranti d’insetto e sensibilità rabdomante, decide di partire dalla creazione di un terreno comune di ascolto e lo fa proponendo alla classe dei giochi in cerchio. Si fa seguire senza parlare, tutto è fluido, scorre. Nasce dai bambini un gioco: “Solo io sono Teodoro” e tutti ripetiamo la frase, ognuno indicando se stesso. Ecco che fa capolino il teatro: io sono te, tu sei me. Ha inizio uno slittamento vitale: io sono io, ma al contempo io sono tanti, io siamo noi, noi siamo anche io. Teodoro posiziona due sedie, una di fronte all’altra. Si siede su una e domanda: “io sono io e tu chi sei?”. Ben presto una voce si leva, la stavo aspettando: “Ma dov’è oggi Shamael?” E qualcuno risponde, rivolgendosi a Teodoro: “L’hai rubato!” E un terzo: “Shamael è la persona che ti ruba…”.

Ai bambini ho proposto, durante il secondo incontro, in cui non avevo né occhiali né scotch sugli occhi, di fare finta di essere me. Mi sono seduto in fondo alla classe a osservare come “facevano me”, e ho visto che lo facevano molto bene. Nell’incontro precedente gli avevo chiesto di fare quell’altro me, il personaggio, quello che ha gli occhiali e non vede niente. Tutti insieme hanno incurvato la schiena, poi hanno cominciato a strisciare i piedi e parlare con voce roca. Chi stavano imitando? Io non avevo mai parlato in quel modo, non strusciavo i piedi e non stavo così tanto ricurvo. Chi stavano imitando allora? Dove avevano visto l’immagine che ora stavano mostrando, tutti così perfettamente sintonizzati in quell’imitazione collettiva? A un certo punto, all’inizio del secondo incontro, quando eravamo in cerchio, dopo aver fatto un po’ di training fisico e vocale, un bambino mi guarda e dice “chi sei tu?”. Io comincio a ripetere “chi sei tu?” A turno ripetiamo questa domanda, guardando la persona che ci sta accanto. Qualcuno dice “sono io”, e siccome mi viene in mente un’amica che durante le prove di un altro spettacolo mi aveva detto “solo io sono io” allora ho aggiunto questo pezzo alla frase di prima. Tutti insieme abbiamo iniziato a ripetere “solo io sono io, chi sei tu?” Rivolgendosi alla persona accanto, uno alla volta. Arrivato il turno della maestra, lei, candidamente, ha risposto: io sono io. La mia risposta si è pronunciata da sola, ti assicuro, cara Asja, che non sono stato io, ma lei, a pronunciarsi. “Sempre?” Ha detto la mia voce, e la maestra ha risposto “si”. Allora lo sciamano ha concluso con un “mi dispiace”. Cosa fa uno sciamano? Assume una sostanza naturale che sballa tutto. Fa venire da vomitare, fa perdere i sensi, fa barcollare, vengono le vertigini. La prima volta Davi Kopenawa dice che gli sembrava di morire. Ma non morì, successe un’altra cosa. Lui la descrive così: “sono diventato altro”.

Dell’autorubazione

Inizia il gioco dell’ auto-rubazione che consiste in una riflessione agita, giocata, che ruota attorno ad alcune domande non poste: “ti capita mai di auto-rubarti e di non essere più tu?” “C’è qualcuno o qualcosa che ti auto-ruba portandoti distante da te stesso?”. Le azioni teatrali son piccole performance che si compiono nella cornice della classe e raccontano di un mondo sottosopra, in cui il rovesciamento dell’io nei possibili altri me è una pratica esplorativa che ci si concede come percorso di crescita. Di grande fascinazione per me è stato poter osservare come i bambini e le bambine assorbivano i continui slittamenti semantici tra persona e personaggio che Teodoro percorreva entrando e uscendo da Shamael: ciò che mi inchiodava in una interrogazione puntuale non rappresentava minimamente un interrogativo per loro: dimostrandomi definitivamente la piccolezza della mia condizione d’adulta da un lato, il possibile intreccio tra due piani narrativi dall’altro e ancora l’attrazione che avevano tanto dal personaggio Shamael, quanto dal “personaggio Teodoro”, non privo ai loro occhi di incanto.

Probabilmente “fare l’artista” ed esserlo per davvero ai loro occhi ha rappresentato qualcosa di misterioso di per sé al di là dei panni che di volta in volta si possono vestire in scena.

I bambini lo dicono in un altro modo, senza usare le parole. Prendono i pantaloni e li infilano nelle braccia. Poi prendono la giacca, e nelle maniche ci infilano le gambe. Per finire, coprono la testa in modo da non vedere e non essere visti, e infilano le scarpe nelle mani. “Autorubarsi”. Quando gli chiedo cos’è che faccio quando recito lo sciamano loro rispondono che lo sciamano mi ha “rubato”. Ma siccome quando recito sono sempre io, allora vuol dire che mi sono “autorubato”, concludono. “Dov’è lo sciamano adesso?” Mi chiede una bambina alla fine del racconto, l’ultimo giorno della mia permanenza in teatro. Non so cosa rispondere, guardo gli adulti intorno a me sperando che qualcuno suggerisca la risposta esatta, come fossi a scuola davanti alla lavagna. Siccome nessuno ha intenzione di suggerire, abbozzo incerto una risposta. “Qui” dico timidamente, indicando un punto al centro del petto. Nel frattempo, un’altra bambina, a bassa voce, scuote la testa e dice alla sua mamma: “è nella storia”. Cara Asja, i protagonisti di questa storia dovrebbero essere i bambini, perché invece si parla così tanto dello sciamano? Tu ci capisci qualcosa?

Cara Asja,

a un certo punto del nostro percorso è esploso un caos bellissimo, ti sarebbe piaciuto tanto.

È comparso il teatro, è stata un’epifania. Teodoro ha iniziato a proporre un riscaldamento in cerchio fatto di gesti e parole. Diceva poco, non spiegava niente, tutti seguivano bene. Ed è nato così un gioco molto significativo. Ha fatto capolino il teatro: “Io sono te – tu sei me” un gioco che sì ha a che fare con il teatro ma anche con la costruzione di un gruppo. L’atrio è troppo rumoroso e dispersivo e Teodoro decide di andare nella classe. Propone: “a sedere nel banco”. I bambini e le bambine iniziano a interpretare la proposta. Qualcuno bisbiglia: “ha detto nel banco quindi ci si può sedere anche sul banco”. Prendono posto ma in modo un po’ diverso dal solito, non tutti seduti sulle sedie dietro al banco. Si sentono sollecitati, si sentono autonomi, sentono che è stato costruito un territorio dove possono farlo.

Del fare e del non fare

Senza contorni tutto fluttua, niente si spezza / Senza contorni è solo una questione di intensità

(dal programma di sala di “Sottobosco” di Chiara Bersani)

Il territorio immaginato da Teodoro per incontrare l’infanzia è stato determinato dal desiderio di darsi un appuntamento in un luogo libero: libero da prescrizioni e regole troppo vincolanti, libero da pregiudizi, con delle regole ma non delle imposizioni e con istruzioni precise ma da modellare strada facendo. Fin da subito mi è parso un desiderio luminosissimo e spaventoso al tempo stesso, io ne avrei avuto timore e raramente quando incontro l’infanzia ho questo ardire anche se riconosco che i momenti più intensi nascono proprio quando si ha il coraggio di ammorbidire i confini. Sono comunque portata fin da subito a fidarmi ciecamente del suo passo e ci inabissiamo insieme a Shamael nella foresta amazzonica dell’infanzia. Ciò che è apparso, ora in modo schiacciante quasi da risultare insistente, ora in filigrana, è stato lo spaesamento che i più piccoli hanno rivelato di fronte a questa apertura che è possibilità di interpretare ciò che ancora non è, qualcosa in potenza, qualcosa che potrebbe essere e che è responsabilità di ciascuno singolarmente e di tutti collegialmente far fiorire o meno. Dopo due ore di giochi che chiameremo “teatrali”, ai loro occhi quasi sembrava di “non aver fatto niente”: al non sapere dare una definizione (e quindi un recinto preciso a ciò che veniva proposto e agito) si univa l’evidente, e più che legittima, impossibilità di riconoscere il “tanto” che quell’esperienza aveva loro offerto. L’incontro con l’arte e con il gesto artistico ci educa allo spaesamento, all’occasione di stare di fronte e dentro a qualcosa che non dominiamo mai completamente, al mistero di cui l’arte è portatrice, al non sapere come opportunità e non come limite. Questo immenso non sapere, questa “giornata fatta di niente” (che poi niente non è) può forse oggi rappresentare una forma di insegnamento essenziale, oggi che siamo spesso privati delle possibilità “dell’ignoto – ignoto” che Mark Forsyth ci ha raccontato nel suo omonimo libretto.

Cara Asja, provo a descriverti cos’è successo ieri. E’ stato un casino infernale ed è stato molto bello. C’era un sacco di gente. Lo spazio vuoto dietro di me era seducente quanto uno schermo. Mi sono posizionato davanti allo schermo, e ho cominciato a raccontare. Il racconto vola. E’ come appoggiarsi a un bastone ricurvo. Quando sono diventato Shamael, i bambini stavano tutti intorno a lui. Volavano sul palco, afferravano le maschere, giocavano. Poi tornano al posto, credo, io che ne so? Non vedo niente. Ho messo due pezzi di scotch sulle palpebre, e sopra ho indossato un paio di occhiali con le lenti di ottone rivestito di foglia d’oro. Il racconto prosegue, e quando tiro fuori lo straccetto con gli spiriti del fuoco sento che qualcuno si meraviglia a bassa voce. Chiedo ai bambini di aiutarmi a tenere acceso il fuoco, cioè di muovere lo straccetto in modo che rifletta la luce, e loro, felicissimi e increduli, lo fanno tutti insieme. Allora io mi avvicino agli adulti che sono rimasti seduti. Tolgo gli occhiali di ottone e lo scotch dalle palpebre. Adesso ci vedo e non sono più un personaggio. Dico “lo so che volete sapere cosa hanno fatto i bambini nel bosco”.

“Lo spettacolo ti fioriva alle spalle”

Dirà poco dopo Gerardo Guccini. Perché intanto è iniziato l’incontro che segue. I bambini stanno giocando con tutti gli attributi di Shamael-personaggio. Indossano le unghie artiglio, le infilzano nelle maschere, cercano nuove combinazioni per gli oggetti che mi hanno visto usare. Poi, a un certo punto, alcuni bambini si siedono in cerchio. Agnese trova la giusta delicatezza per coinvolgere i bambini in un discorso da grandi, così cominciano a farmi delle domande. Dicono cose molto profonde e utili. Guccini ci regala la frase che ho scritto poco sopra. Poi, nella maniera più naturale possibile, le persone si spostano, finché adesso siamo tutti nella caffetteria, con un piatto di orecchiette con cime di rapa in una mano e un bicchiere di vino nell’altra. Molti ricordano le parole con cui il racconto si apre.

“Noi siamo gli ultimi poeti rimasti al mondo”

Desideravo sentire come avrebbero raccontato loro la storia, parlo dei bambini, perché non sono ancora soddisfatto di come la racconto io. Forse, la prossima volta vorrei osservare dei bambini ancora più piccoli. Credo che non avrebbero difficoltà a parlare con il mio personaggio. Un po’ di paura sì, ma quella è un buon ingrediente per raccontare questa storia. Cara Asja, delle volte ho l’impressione che i bambini più piccoli non abbiano ancora ben chiaro dove finisce il teatro e comincia la cosiddetta realtà. Un po’ come i poeti. Ma non ho ancora mai lavorato con dei bambini così piccoli. Mi fanno paura, perché dovrei allontanarmi del tutto dal sentiero e percorrere vie più buie.

(Tutti i bozzetti sono di Tedoro Bonci del Bene)

Gli autori

  • Agnese Doria

    Classe 78, veneta di nascita e bolognese d’adozione, si laurea in lettere e filosofia al Dams Teatro e per alcuni anni insegna nelle scuole d'infanzia di Bologna e provincia e lavora a Milano nella redazione di Ubulibri diretta da Franco Quadri. Dal 2007 è giornalista iscritta all’ordine dell’Emilia-Romagna. Ha collaborato con La Repubblica Bologna e l’Unità Emilia-Romagna scrivendo di teatro e con radio Città del Capo.

  • Teodoro Bonci del Bene

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