La coscienza del vostro amore, in scena il 31 gennaio scorso al Teatro Laura Betti di Casalecchio. Lo spettacolo è l’esito di un esperimento di teatro partecipato condotto dalla compagnia Kepler-452 con gli abitanti del Galaxy, un ex-studentato diventato sede per famiglie senza casa. All’epoca dell’attività di Kepler (2016-2017), l’edificio stava per essere sgomberato e ora lo è definitivamente: c’è chi ha trovato un’altra sistemazione, chi è stato aiutato e chi ora si ritrova senza un tetto sulla testa. Eppure gli ex inquilini del Galaxy sono qui, a raccontare la loro storia su un palcoscenico insieme agli attori Nicola Borghesi, Guillermo Mariscal e Giulia Maulucci. Si mettono in gioco, sinceri, veri, a tratti impacciati, forse disorientati dal palcoscenico. Nonostante le insicurezze, la loro personalità si manifesta forte e sicura, soprattutto nel rispondere alle scomode domande alla base dell’esperimento di Kepler, quelle tratte da Comizi d’amore di Pasolini: sai come nascono i bambini? Quanto è importante la vita sessuale in una coppia? Cosa pensi degli omosessuali? Sei pro o contro il divorzio? Il Galaxy in scena si trasforma in una “cosa” spaziale, extraterrestre, un’astronave, forse un altro mondo. Del resto è ciò che ispira questo nome. Al centro una figura con in testa un casco bianco, immersa in una luce blu e con un rumore bianco di sottofondo, ci parla con accento straniero, un vero extraterrestre per l’italiano di oggi. Ci svela di essere uno degli attori che ha lavorato al Galaxy: lì si è chiesto come sia possibile riuscire a mantenere la propria intimità in pochi metri quadri e con tanta gente intorno. Passa il casco a una minuta figura, la gravità è così alta che i loro movimenti nello spazio sono rallentati. Luce. Cominciano a susseguirsi i racconti di vita degli ex inquilini del Galaxy: c’è la giovane Nouhaila che con amarezza ricorda il violento sgombero da uno stabile occupato con altri senza casa. Sa bene che insediarsi abusivamente in un edificio è illegale, ma se nessuno si preoccupa di loro, se quelle case erano abbandonate, era davvero necessario uno sgombero così violento? È poi la volta di Nadia, uscita dall’oblio che le faceva scambiare le percosse del marito per vero amore. Ribana è invece una rom, o meglio una zingara, come preferisce farsi chiamare. È una donna dal vissuto complesso, a tratti inverosimile, come quando a 13 anni scappa in Macedonia per una fuga d’amore di qualche giorno. I giorni diventeranno dieci anni e perderà ogni contatto con la famiglia. Annalisa ci racconta che i genitori non volevano il suo matrimonio con Giuliano, ma lei, nonostante le certe difficoltà economiche e la mancanza di una casa, ha scelto l’amore. Il cantare dei cardellini ci fa «contemplare il tempo», come ci avrebbe consigliato Adel se fosse stato in scena, un orafo tunisino che ha avuto tante donne, ma ora si dice innamorato della moglie. Se si parla di matrimoni ecco arrivare Mustafà, un omone gigantesco, serio sì, ma a tratti buffo. Si guadagna da vivere organizzando feste di nozze, è felicemente sposato anche se il suo è stato un matrimonio combinato. Infine è il turno di Lirjie e Francesco, due esistenze, un’unica persona, due facce della stessa medaglia: lei rom, lui fascista convinto, hanno dei figli, sono entrambi senza lavoro e casa e quella sera sarebbe stato il loro ultimo giorno nell’albergo che li ospitava.
(Nicola Borghesi e Mustafà)
Sembra di assistere alle prove di uno spettacolo ancora in costruzione: tutti gli interventi sono intervallati dai commenti di Nicola e Giulia che ricordano la prima volta che hanno incontrato queste persone, spesso completando i loro racconti. Le domande pasoliniane irrompono in risposte impreviste, distruggendo ogni nostro pregiudizio: non ci saremmo mai aspettati che proprio Ribana difenda la castità fino al matrimonio, che l’arabo Adel non abbia nulla contro gli omosessuali, che Mustafà creda nel matrimonio nonostante le nozze combinate. Le loro vite ci portano a mettere in discussione noi stessi, così come i concetti di casa, famiglia e legami. A sorprenderci è soprattutto la loro facilità nel parlare d’amore, sentimento che fa da sfondo a ogni racconto: amare è amare, punto. È qualcosa di incondizionato al di là di difficoltà, litigi, opposti punti di vista. Nel bene e nel male. Non importa che lo spettacolo non risultasse perfettamente confezionato, che il proiettore a un certo punto abbia deciso di abbandonarli, che di tanto in tanto ci fosse silenzio, che a tratti ci fosse confusione. Vita e amore non sono forse “cose” confuse e caotiche? Come rappresentarle altrimenti? In scena c’è la voglia di continuare a esistere nonostante tutto, l’amore sembra bastare. Ci chiedono di averne coscienza. Ma si può davvero avere coscienza dell’amore?Ilaria Cecchinato
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.