Io vengo da una piccola città di provincia. Nel mio condominio ci conosciamo tutti, e a questo indubbiamente contribuisce il fatto che, bè, siamo tutti parenti. Al piano terra lo zio di Firenze, al primo piano i parenti del cugino emigrato, e così via fino all’ultimo (mia zia). Perciò, quando mi sono trasferita a Roma, l’effetto è stato un po’ straniante: vivevo in un complesso di condomini nella periferia orientale della città, il mio palazzo aveva nove piani e una miriade di appartamenti e quando, fresca di trasloco, ho provato ad attaccare bottone con il mio dirimpettaio lui mi ha guardata allibito, liquidandomi in tutta fretta. Probabilmente, col senno di poi, c’entrava il fatto che di mestiere facesse il giornalista di cronaca nera, e che la notte precedente mi avesse sorpresa sul pianerottolo a trascinare un pesante, polveroso baule in compagnia della mia coinquilina. Ma tant’è: io e il mio vicino di casa non scambiammo mai più di un buongiorno in ascensore.
A Bologna vivo in un complesso di palazzi sicuramente meno imponente: gli edifici sono più bassi, più distanti tra loro, e c’è un grazioso cortiletto interno che separa gli uni dagli altri. Ma la sostanza dei contatti col vicinato rimane quella delle grandi città; il che si traduce, essenzialmente, nel fatto che io non ho assolutamente idea di chi siano i miei vicini di casa. O meglio, non ce l’avevo prima della quarantena. Ho cominciato a individuare alcune facce nei primi giorni, quando ancora cantavamo l’inno dai balconi (un’abitudine per cui abbiamo perso in fretta l’entusiasmo); poi passando sempre più tempo a penzolare dalla finestra ho imparato a riconoscere anche la signora che fa yoga nel primo pomeriggio, l’ometto con la voce rauca che fa le sue telefonate con la nipotina sporgendosi dal balcone del quinto piano, la vecchietta che cura il suo basilico come se fosse un bambino. Ho anche cominciato a intuire, col passare dei giorni, che sono circondata da gente che fa musica. Da poco più di una settimana si sentivano, ogni tanto, note di pianoforte scivolare via da una delle finestre del palazzo di fronte al mio.
Al diciottesimo giorno di quarantena, però, ho fatto una scoperta nuova. Ho scoperto che nel mio complesso di palazzi vive anche un attore.
Tutto è partito, alle ultime luci del giorno, dall’appartamento del pianoforte: i pezzi oggi si sentivano meglio, forse la finestra era più aperta del solito, forse ero semplicemente io più vicina alla mia quando sono cominciati. Stasera però è successo anche qualcos’altro: da uno dei balconi, a un certo punto, una voce chiara e squillante ha incominciato a declamare un pezzo tratto dal primo libro di Paolo Sorrentino, una sorta di monologo del disprezzo, che comincia così: «Non sopporto i vecchi». Sdegnoso e scanzonato e, sembra, di grande successo tra i miei vicini di casa. In questo momento storico in cui si cercano nuovi modi di fare teatro, tra visioni in streaming, dirette Instagram, favole al telefono, sembra che ci siano alternative che nascono da sé, con grande naturalezza e tra gli applausi e le risate di un pubblico improvvisato quanto la scenografia – in questo caso, una tenda solare opportunamente riavvolta per premettere a tutti i dirimpettai di vedere il “palco” con chiarezza. Succedono allora, in questi giorni, cose strane: succede che una sconosciuta che porta a spasso il cane mi sorrida dal parcheggio, unendosi ai nostri applausi; succede che le mie coinquiline, che non sono mai riuscita a portare con me a teatro, si siano unite entusiasticamente al pubblico dei balconi; succede che nascano nuove forme di vivere e pensare la recitazione, che venga in superficie un teatro spontaneo, libero, quello che forse, in fondo, ai teatranti viene meglio, perché viene sempre. Succede che ci si dia collettivamente appuntamento per il “teatro al balcone” domani sera, alle 18, (no, alle 18:30, meglio, così può venire anche la signora del quarto piano!), e dunque state pronti, condomini di via Galeotti / via San Donato, perché domani andrà in scena, solo per noi, Bestie Rare di Angelo Colosimo.
Succede, insomma, di avere l’impressione che la primavera sia iniziata con una settimana di ritardo, ma che infine sia qui. Anche quest’anno.
A Bologna vivo in un complesso di palazzi sicuramente meno imponente: gli edifici sono più bassi, più distanti tra loro, e c’è un grazioso cortiletto interno che separa gli uni dagli altri. Ma la sostanza dei contatti col vicinato rimane quella delle grandi città; il che si traduce, essenzialmente, nel fatto che io non ho assolutamente idea di chi siano i miei vicini di casa. O meglio, non ce l’avevo prima della quarantena. Ho cominciato a individuare alcune facce nei primi giorni, quando ancora cantavamo l’inno dai balconi (un’abitudine per cui abbiamo perso in fretta l’entusiasmo); poi passando sempre più tempo a penzolare dalla finestra ho imparato a riconoscere anche la signora che fa yoga nel primo pomeriggio, l’ometto con la voce rauca che fa le sue telefonate con la nipotina sporgendosi dal balcone del quinto piano, la vecchietta che cura il suo basilico come se fosse un bambino. Ho anche cominciato a intuire, col passare dei giorni, che sono circondata da gente che fa musica. Da poco più di una settimana si sentivano, ogni tanto, note di pianoforte scivolare via da una delle finestre del palazzo di fronte al mio.
Al diciottesimo giorno di quarantena, però, ho fatto una scoperta nuova. Ho scoperto che nel mio complesso di palazzi vive anche un attore.
Tutto è partito, alle ultime luci del giorno, dall’appartamento del pianoforte: i pezzi oggi si sentivano meglio, forse la finestra era più aperta del solito, forse ero semplicemente io più vicina alla mia quando sono cominciati. Stasera però è successo anche qualcos’altro: da uno dei balconi, a un certo punto, una voce chiara e squillante ha incominciato a declamare un pezzo tratto dal primo libro di Paolo Sorrentino, una sorta di monologo del disprezzo, che comincia così: «Non sopporto i vecchi». Sdegnoso e scanzonato e, sembra, di grande successo tra i miei vicini di casa. In questo momento storico in cui si cercano nuovi modi di fare teatro, tra visioni in streaming, dirette Instagram, favole al telefono, sembra che ci siano alternative che nascono da sé, con grande naturalezza e tra gli applausi e le risate di un pubblico improvvisato quanto la scenografia – in questo caso, una tenda solare opportunamente riavvolta per premettere a tutti i dirimpettai di vedere il “palco” con chiarezza. Succedono allora, in questi giorni, cose strane: succede che una sconosciuta che porta a spasso il cane mi sorrida dal parcheggio, unendosi ai nostri applausi; succede che le mie coinquiline, che non sono mai riuscita a portare con me a teatro, si siano unite entusiasticamente al pubblico dei balconi; succede che nascano nuove forme di vivere e pensare la recitazione, che venga in superficie un teatro spontaneo, libero, quello che forse, in fondo, ai teatranti viene meglio, perché viene sempre. Succede che ci si dia collettivamente appuntamento per il “teatro al balcone” domani sera, alle 18, (no, alle 18:30, meglio, così può venire anche la signora del quarto piano!), e dunque state pronti, condomini di via Galeotti / via San Donato, perché domani andrà in scena, solo per noi, Bestie Rare di Angelo Colosimo.
Succede, insomma, di avere l’impressione che la primavera sia iniziata con una settimana di ritardo, ma che infine sia qui. Anche quest’anno.
Ludovica Fasciani
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.