Abbiamo incontrato Roberto Latini in seguito al debutto de I Giganti della montagna e alla recente ripresa di Ubu Roi (2012). Durante la nostra conversazione abbiamo affrontato diverse questioni che ci hanno portato ad approfondire una parte del lungo percorso di Roberto Latini / Fortebraccio Teatro, dal rapporto tra tradizione e sperimentazione ad alcuni elementi della sua pratica e poetica scenica.
Ci piacerebbe partire da un tema che riguarda da vicino due fra le ultime produzioni di Fortebraccio Teatro come Ubu Roi e I giganti della montagna, ma che in realtà abbraccia il tuo percorso artistico fin dall’inizio. Negli anni, non solo hai ricercato il confronto con i maggiori autori della letteratura teatrale: Shakespeare, Molière, Jarry, Pirandello, ma hai portato avanti anche una riflessione sulla tradizione scenica, rievocando sul palco alcuni maestri del teatro. Da ieri a oggi, come definiresti il tuo rapporto con la tradizione?
Aggiungo una domanda: come ci confrontiamo con i classici e con la tradizione oggi? Lo dico e penso subito a Il servitore di due padroni di Latella, uno spettacolo esemplare da questo punto di vista: innanzi tutto perché non si riferiva nemmeno a Goldoni, l’originale letterario, ma a quella rielaborazione ultramoderna che ne fece Strehler (1947, ndr), tutt’ora in corso, e poi per lo stupore che la regia di Latella ha provocato in certe platee. Ne parlo, però, anche perché a posteriori mi sono reso conto di attraversare un passaggio piuttosto importante, l’ho sottolineato ne I giganti della montagna, ma era già iniziato con Ubu Roi. Alcuni anni fa, per un lavoro tratto da Pirandello, avrei scelto un titolo in cui denunciare una manomissione, un atteggiamento. Come per la parte metateatrale di Amleto, per esempio, che poi è diventata Per Ecuba _ Amleto neutro plurale, o per tutti gli spettacoli legati a Otello. Questa volta invece ho pensato di lasciare il titolo dell’opera già dal I Atto, senza seguire l’indicazione pirandelliana che prevedeva si chiamasse Fantasmi. Come a dire: stiamo nel confronto fin dall’inizio. Perché sono convinto che in quanto comunità teatrale, come insieme tra platea e palco, siamo già pronti per avere a che fare con processi e punti di vista diversi.
Che siano tramite di quella domanda…
Sì, perché non è importante la risposta, ma la domanda in sé, con le sue sfumature, le sue capacità o incapacità, la sua misura. A me sembra che in questi ultimi trenta, quarant’anni, si siano create le condizioni per poter guardare al patrimonio teatrale come patrimonio comune, in cui porre e considerare gli spettacoli a disposizione gli uni degli altri. Pensare di aggiungere il proprio lavoro a un discorso più ampio, che va ben aldilà del percorso individuale, credo sia il punto di partenza per provare a spostare quel confine mobile che c’è tra palco e platea, che non detiene nessuno, e che alcuni hanno il dono di oltrepassare. La prossimità del confine dal punto di vista artistico per me è un’aspirazione, ed è ciò che Fortebraccio Teatro spera di proporre con i suoi lavori.
Da qui, che tipo di operazioni ha richiesto un testo come quello dell’Ubu Roi?
La riduzione, ma soprattutto l’adattamento in quel caso erano necessari. Ubu Roi è un testo impossibile da mettere in scena. Per com’è scritto, per il numero di personaggi, situazioni, qualcosa va sacrificato per forza. Chissà, forse negli anni avremo a disposizione tecnologie e tecniche da spettatori tali da poter gestire una comunicazione sempre più veloce e complessa per una versione integrale. Di questi tempi, però, io sapevo che avrei dato appuntamento all’occasione Ubu Roi e non al testo di Jarry. E devo dire che lo spettacolo è arrivato al palco in un modo che m’è sembrato capace di dare una risposta possibile a quella domanda iniziale. Un modo che non va denunciato, o scritto nero su bianco, ma che a sua volta è un interrogativo e può ricevere risposta nel tempo, nella sensibilità di ognuno, nella sensibilità del tempo, pure, mi piace pensare.
Come verifichi di volta in volta la relazione con gli autori che incontri? E in che modo il tuo percorso, che è segnato anche da rielaborazioni diverse della stessa materia, si è modificato negli anni?
Uno spettacolo è fatto ogni volta di una decisione diversa, quando lo stiamo preparando scegliamo il primo buio, la prima luce e lì ci muoviamo. Mentre mi facevi la domanda però pensavo: qual è la condizione che mi permette di stare dentro queste scelte, la conquista, che per me proviene dalla scuola di Perla Peragallo e dagli anni successivi? La metto meno romanticamente possibile: se non avessi conosciuto Perla forse non avrei vissuto parte della mia vita in questo modo. Però sono anche sicuro di aver avuto la capacità di interpretare ciò che mi veniva detto, da allievo, di riportarlo alla mia misura, e questo è fondamentale rispetto all’ascolto e alla relazione con le verità che lei ha distillato nel tempo. Ora mi viene in mente L’elogio del disordine di Jouvet, questo diario bellissimo a cui lui, attore, riferisce le sensazioni di ogni serata. Si trova raramente ma è uno dei pochi testi che ogni tanto mi capita di consigliare, perché Jouvet racconta di un’autoconcessione: dell’attore come qualcuno che non manda in scena la propria artisticità, se la concede. La questione non è avere a che fare con il proprio essere artista, io non ne ho a che fare per niente, ci vivo molto serenamente. Ma, voglio dire meglio: quelle decisioni che si prendono continuamente, io le trovo nell’ordine di una sensibilità. Ho fatto solo questo negli anni: ho affinato il mio sentire. Ed è ciò che porto in scena. Sono dentro l’autoscolto, dentro l’ascolto visivo del palcoscenico, in quello del respiro della platea. Da qui, arriviamo a una forma drammaturgica. Le nostre drammaturgie sono costruite in modo tale che io possa condurre il gioco in quel momento. Non sono mai parte di un meccanismo, individuale, di gruppo. Né nella necessità di raccontare il mio punto di vista rispetto a Pirandello. La cosa più importante per me è avere a che fare con un’occasione. In quell’occasione lì io sono a servizio, nella speranza e nell’aspirazione del teatro. Diciamo che di questi tempi vivo proprio nella serenità d’aver capito che non abbiamo il mezzo chilo di teatro da elargire agli assetati. Non siamo degli spacciatori di teatro. Facciamo un tipo di proposta, che è il mezzo non il fine, la facciamo affinché possa accadere teatro; poi ci sono sere in cui questo succede, per un momento, per due, e altre in cui non accade, o ti fa venire voglia che accada.
Rispetto al gruppo di attori, al loro e al tuo ruolo all’interno dello spettacolo, come si è andata definendo la scrittura scenica?
Gli attori sono stati meravigliosi, perché mi hanno dato una possibilità importantissima: quella di presentarmi il primo giorno soltanto con una scena. Non sono arrivato con il copione da leggere a tavolino, abbiamo letto la prima scena e poi lo spettacolo l’ho costruito come avrei fatto se fossi stato da solo, giorno per giorno. Ci ho messo un sacco di tempo a capire come assegnare le parti, e la cosa di cui sono più contento è l’alchimia che si è venuta a creare tra loro. Per esempio: Ciro Masella – Madre Ubu – e Savino Paparella – Padre Ubu – non si erano mai incontrati prima, ma sono perfetti insieme, pur nella distanza siderale del loro modo di stare in scena. Quanto a me, all’inizio sapevo solo che non sarei stato nella stessa condizione degli Ubu: attraverso la mia presenza avevo la possibilità di creare un’alternativa alla loro linea drammaturgica, potevo dettare ritmo, essere boa attorno alla quale girare. Da quel pensiero è derivato il mio atteggiamento nello spettacolo e così mi sono inserito, più che in una drammaturgia, direi in una grammatica. Una grammatica che, per tornare al lavoro con gli attori, è qualcosa che impari insieme agli altri, scoprendo il valore dei suoni, dei gesti di ognuno.
In questa, e nelle precedenti occasioni in cui ti sei trovato a dirigere altri attori, come hai affrontato il ruolo di regista?
È molto raro che io mi occupi della regia e basta. Questo vuol dire che tante volte mi perdo ciò che vedrebbe un regista mettendo la sediolina fuori dal palco, però gli spettacoli riesco a vederli, a sentirli da dentro. Capita che osservi dall’esterno ma di sicuro sono uno che va in scena, quindi il mio rapporto con gli attori è assolutamente in corso. Di bello il teatro ha che a un certo punto arriva il momento in cui tocca a te, cioè tocca sempre a te ma, a un certo punto, tocca a te un po’ di più. Viverlo insieme agli altri per me è una grandissima gioia.
Parti da testi teatrali, sia per Ubu Roi che per I giganti della montagna, ma quello che ascoltiamo in scena è un testo in parte diverso. Che cosa cerchi quando ti trovi a riprogettare la scrittura di altri autori?
Una scrittura aperta, mi viene da dire, non ho mai avuto la sensazione di chiudere, di finire. Ma questo riguarda un atteggiamento che credo mi allontani da un certo tipo di registi, con cui pure m’è capitato di lavorare, che sentono la scena come un problema da risolvere, o hanno bisogno di trovare “la” soluzione. Per me la scena non può essere percepita come un problema. Quando il lavoro ti pone delle questioni si aprono delle possibilità, sei di fronte all’occasione per fare altro. Rispetto al rapporto con il testo di Jarry ciò che cercavo erano delle aperture, delle possibilità interne, non ho concepito lo spettacolo pensando di dover uscire o allontanarmi da Ubu Roi. Lo stesso è avvenuto con I giganti della montagna, soprattutto per il II Atto. In realtà, la storia di questo spettacolo è particolare, perché Il I Atto prevedeva la presenza di Federica Fracassi, poi fatalmente sono rimasto da solo. All’inizio, era come se gli appunti drammaturgici che avevo preso fossero in attesa dell’aggiunta di Federica; quando poi lei è arrivata, quegli appunti non sono riusciti a farsi appuntamenti. Il suo essere Ilse costringeva me a diventare Cotrone in un modo che mi sembrava improbabile rispetto al pensiero che avevo dell’opera. L’obiettivo erano le parole di Pirandello, non i personaggi, non la trama. Il II Atto invece è nato sapendo che non si sarebbe aggiunta nessun’altra a quella condizione. Ora sono tornato a lavorare sulla prima parte, proprio perché so che sarà così, che dovrò entrare in relazione con un’assenza.
Fatalità e scelta che ti hanno dato nuovamente la possibilità di affrontare il femminile in scena. Una questione cardine della tua identità attoriale che qui si nutre di quell’archetipo del femminile che fonda la trilogia dei “miti” di Pirandello, di cui I giganti della montagna è l’ultima declinazione. Come hai lavorato da questo punto di vista?
Nel tempo mi sono visto fare Donna Elvira dal Don Giovanni di Moliere, Ofelia, ho desiderato essere Lady Macbeth, ma non per fare la donna o il femminile da uomo. Nei Giganti, appunto, non penso di essere Ilse – non mi rivolgo, come fece Leo de Berardinis per esempio, a lei in quanto personaggio – credo piuttosto che siano le parole ad avere un aspetto femminile. Anche se forse quelli pirandelliani, in questo caso, sono dei suoni puri. É un pensiero che affianco all’incompiutezza del testo. Se Pirandello fosse arrivato al “cala la tela”, sicuramente sarebbe tornato indietro, avrebbe riletto tutto con l’idea di una struttura finale, e sono certo che alcune parole sarebbero cambiate, le avrebbe spostate, saccheggiate. Invece questo testo, non finito, ci restituisce dei suoni che sono essi stessi incompiuti, impreparati, puri. Sono parole sulle quali viene accesa una luce, improvvisamente.
La prima frase che apre lo spettacolo è l’«Io ho paura» su cui s’interrompe il testo pirandelliano, che tu poni al fianco dell’immaginazione, parola scritta sul velatino che copre la scena, per poi essere detta dalla voce di Cotrone. Nella tua drammaturgia la “paura” è uno dei termini ricorrenti. C’è in questo un legame con il modo in cui affronti lo stare in scena?
Diciamo che io ho sempre paura quando sono in scena, ma la vivo molto serenamente, è una cosa sana: mi dà modo di essere attento, di stare nella cura di ciò che propongo. Ne I giganti della montagna, però, c’è qualcosa di diverso. Una volta messo a fuoco che quella frase è l’ultima battuta, che tutto va a finire lì e che si riesce a dirla, o meglio, a farla dire, allora credo si senta anche la paura che Pirandello provava in quel momento e il suo bisogno delle battute iniziali, di personaggi come Quaquèo, Spizzi, Ilse. Poi, io la pongo al fianco dell’immaginazione perché l’immaginazione è condizione, la paura è partenza, inizio.
E infatti il pubblico è convocato a partecipare di questa condizione, in uno spazio-tempo in divenire in cui i segni del linguaggio scenico lasciano allo spettatore un’ampia libertà interpretativa.
Sì, sicuramente. Ma soprattutto perché, di continuo, scelgo dentro una sensibilità che mi porta a completare il più possibile la domanda di partenza, più che fornire una risposta. Questo succede, e che bellezza dirlo, davvero involontariamente, nell’aprirsi di una condizione in cui può accadere qualcosa volenti o non volenti. Tra queste scelte, ce ne sono alcune che possono essere interpretate, ma lo spettatore lo fa rispetto a ciò che vede, che pensa di vedere. Non ho possibilità di pretesa che capisca il mio percorso all’interno di ogni segmento. A volte capita di cercare, cercare, fino a quando non si trova qualcosa, o si arriva all’illusione d’aver trovato. In realtà poi scopri l’illusione di aver cercato. Altre volte, invece, capita che proprio non cercando incontri quello che prima non c’era. Ogni tanto ripenso a una frase di Flaiano: «Il gioco è questo, cercare nel buio qualcosa che non c’è e trovarla». Davvero, il teatro è un po’ tutto lì.
Ecco, questa sensibilità, le scelte di cui parli, si coniugano però con una precisione e una disciplina che sono proprie del tuo stare in scena. In che modo, dal periodo di formazione agli anni successivi, si sono andate definendo la tua tecnica di attore-autore, le tue capacità registiche?
Ci sono stati dei cicli che hanno portato ad alcune conquiste, a volte le ha generate la capacità di perdere, di lasciare andare le cose. Appena uscito dalla scuola, l’idea di regia o di drammaturgia quasi non esistevano per me. Nel tempo, invece, è stato fondamentale elaborare un pensiero drammaturgico e un approccio registico che mi permettessero di dare una scansione al lavoro. Quindi abbiamo imparato – dico “abbiamo” riferendomi agli altri elementi di Fortebraccio, ma era un compito che dovevo imparare soprattutto io – ad andare oltre l’assecondare un’idea. Per Perla è stato sempre molto importante l’attore. Voleva che noi sul palco fossimo capaci: non bravi ma capaci. Questo è veramente il punto: essere capaci di rispondere alla scena. Ma da lì il percorso è stato graduale. C’è stato un periodo in cui io ero nell’assoluta incoscienza di ciò che proponevo, e questo mi era più che sufficiente; da un certo momento in poi, però, ha cominciato a diventare un problema, allora chiedevo a me stesso delle complicazioni enormi rispetto alla semplicità dello stare in scena. Tutto questo fronteggiarsi di complicazioni e semplicità porta con sé i germi di una sensibilità che, forse, si costruisce proprio in questo modo: muovendosi dentro parole semplici con pensieri complicati, e viceversa. Le idee stanno dopo. Le ritrovi processate dal linguaggio che ti sembra possibile, il tuo – quello che hai conquistato riconoscendo i confini, quando hai capito come gestire le cose che ti vengono in mente e le tante fasi dell’abbandono, che sono fondamentali in questo lavoro. Poi, il tuo linguaggio diventa il linguaggio della scena, e quando la raggiungi la scena non è più la tua. La scena è soltanto una fase in cui abbandoni, lasci. Non sei più nella conquista. Questo è piuttosto importante, per me.
Dalla tua uscita dalla scuola di Perla a oggi, che sei anima di una compagnia, c’è una costante che senti di rintracciare?
In quanto Fortebraccio, credo che la capacità, e la fortuna che abbiamo avuto nel tempo, sia stata quella di non aver mai reso il nostro modo di affrontare il lavoro una condizione, un mondo conosciuto. Abbiamo cambiato linguaggi, stili. Abbiamo provato. Alcuni risultati sono migliori di altri, ma non è l’esito la questione: è il processo. Gianluca Misiti e io collaboriamo da ventun’anni senza avere un metodo. Ogni volta ricominciamo, procediamo diversamente. Ma devo dire che, forse, ancor prima di Fortebraccio Teatro, Clessidra Treatro e Teatro Es – le mie precedenti compagnie – è stato l’approccio metodologico della scuola di Perla Peragallo a viziarmi nella serenità di manomettere. Per questo non ho mai avuto il timore di affrontare i grandi autori. Fino al punto di non tener conto della Siae in passato, se la possibilità era mettere in scena Caligola.
Nei lavori di Fortebraccio Teatro emerge la piena autonomia espressiva della musica di Gianluca Misiti e del disegno luci di Max Mugnai. Che cosa succede durante il processo creativo?
Rispetto al rapporto con la musica faccio un esempio molto concreto: nei nostri primissimi spettacoli Gianluca suonava dal vivo; già da tempo, invece, siamo in una fase in cui lui sta al mixer. Mentre io sono in scena, lui suona la musica dello spettacolo, e lo fa permettendosi anche di improvvisare, di introdurre possibilità di cui prima magari non avevamo parlato. Questo è fondamentale, perché gli concede di esprimere la sua sensibilità artistica per ciò che sente in quel momento: può scegliere di alzare il volume, oppure inserire un delay che non c’era. Allora lì a me arriva qualcosa di inaspettato, lì costruiamo una scena insieme, ed è più che sicuro che la sera dopo andrà diversamente. Il rapporto con Max è l’opposto: ogni volta so quale luce si accenderà. Diciamo così: quando Max mi parla delle sue luci, di ciò che vorrebbe fare, so che poi me lo farà vedere, mentre Gianluca, in realtà, mi farà ascoltare quello che non mi dice.
si ringrazia Flaminia Salvemini per la gentile accoglienza
di Serena Terranova, Francesca Bini
fotografia di Simone Cecchetti
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.