Desidero, chiedo, auspico:
Primo desiderio
Che il critico mi sveli cose che non so di me, della mia opera;
Secondo desiderio
Che il critico mi sorprenda;
Terzo desiderio
Che il critico sia autore e non compilatore, con tutto il rispetto per i compilatori di ogni disciplina. (La cosiddetta qualità della scrittura cos’è? Non è sfoggio di cultura – anche se la cultura teatrale ci vuole; non è equilibrio formale – l’abbiamo abbandonato da più di un secolo; non è ricchezza lessicale, anche se una bella lingua è molto. E’ piuttosto essere personali, scrivere con personalità genuina, non atteggiata. L’atteggiamento “originale” mi annoia immediatamente.);
Quarto desiderio
Che il critico sia parziale, di parte, sbilanciato; ma sempre sull’opera – mai su ciò che sta intorno ad essa (insomma, che il critico non sia strabico, che guardi proprio me, il mio spettacolo, la mia opera, non ciò che le sta intorno);
Quinto desiderio
Che il critico sia cosciente di compiere una missione impossibile, traducendo una visione. Ciò che agisco in scena sarà sempre diverso per ognuno. Per me, per lui, per ciascuno spettatore.
Il bravo critico lo sa, dunque è di parte;
Sesto desiderio
Che il critico mi diverta;
Settimo desiderio
Che il critico non faccia il regista .
Il regista ha una visione e la traduce in opera. Il critico, se è bravo, ha una visione e costruisce, su quell’opera, una nuova opera.
Tuttavia, o forse proprio a causa di questa intangibilità, io attore e creatore teatrale desidero fortemente poter riconoscere nel critico un mondo parallelo al mio, vicinissimo e lontano al contempo, un multiverso per così dire, dove vigono le stesse leggi dalle quali io sono mosso (passione, abbandono, immedesimazione nell’opera – ovvero parzialità assoluta), declinate con strumenti diversi dai miei.
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.