Macbettu di Alessandro Serra, in scena al Teatro Laura Betti di Casalecchio il 22 marzo e vincitore del premio Ubu nel 2017. Serra sceglie di dare un’identità singolare al suo Macbeth, cercandola in un linguaggio che possa esprimere un’umanità viscerale: la lingua e la tradizione sarda (con la traduzione e consulenza linguistica di Giovanni Carroni). Sul palco, otto attori, tutti uomini, tutti quei piccoli gesti che descrivono una comunità refrattaria alle lusinghe della contemporaneità e ancorata a una matrice di legno, pietra e polvere. Lo spettacolo si apre con il vibrare di tre pannelli di metallo che, a presagire venti di sciagura, accompagnano tutto il dramma, rappresentando di volta in volta le mura del castello o la foresta e imponendo all’intera rappresentazione un’atmosfera livida e impenetrabile. Dall’alto di questi si calano le tre streghe, o Janas, le fate tessitrici d’oro nell’immaginario folkloristico sardo. Gli attori che le rappresentano indossano ampie gonne scure e fazzoletti sul capo; i loro movimenti sono curvi e scattanti, a richiamare l’aspetto terribile e l’atteggiamento dispettoso de Sa Filonzana, la Moira del carnevale barbaricino. Sono queste ultime che sogghignando si alternano ai personaggi principali, per designare, fra delirio e magia, il destino di uomini e regni. Con il loro vorticare fra la polvere introducono l’ingresso in scena di Macbettu e Banquo (Leonardo Capuano e Andrea Carroni). Vestiti di abiti di velluto nero, maglie bianche e cusinzos (scarponi), tipico dei pastori, i due baroni si toccano e si abbracciano con affetto ruvido. Le loro voci sono rauche, come quelle di uomini dell’entroterra sardo, sovrani delle montagne e delle feste tradizionali. I rapporti fra i personaggi, re, signori e guardie, sono sempre orizzontali e sorretti da una com-passione, un patire comune, che li mette in qualche modo tutti sullo stesso piano. L’elemento unificante è il vino, mezzo imprescindibile per sciogliere ogni pretesa razionale e dare del “tu” a Dioniso, fido compagno nella scoperta della caducità dell’esistenza. È un’esistenza dal peso di pietra quella portata in scena, costruita a fatica e sempre in pericolo di crollo, esattamente come la piccola scultura lasciata sul palco che, masso dopo masso, tende verso l’alto, ma con l’equilibrio precario regalatole dal portiere ubriacone (Maurizio Giordo). Il calcolo e l’avidità arrivano con l’imponenza sensuale di Lady Macbeth: nel corpo esile e slanciato di Fulvio Accogli, la protagonista femminile è una sorta di fusione fra la maga Circe e Concita Wurst che chiama a sé le guardie con la stessa foga con cui si chiamano i maiali da ingrassare. Ed è così che arrivano: semi nude, grugnendo e a carponi, per bere a sorsi ingordi il vino lasciato colare dall’alto della brocca, per poi abbandonarsi in un sonno di pietra. Il vino ora è quasi pozione: trasforma l’uomo in maiale rendendolo un servo docile alla mercé dei disegni del padrone. Lady Macbeth non è solo colei che induce alla perdita del controllo, ma è “mere e domo”, come la chiama Macbettu, ovvero “padrona di casa”. Lei è la razionalità ambiziosa. Spicca dietro il protagonista, spesso reggendone il capo come un’abile burattinaia o fiera matriarca, che conosce le fragilità del suo uomo e degli uomini, e da quella fragilità, in un oscillare fra avidità e senso materno, difende il regno finché, nel silenzio della scena, compare per sparire. Sorretta per le braccia in una posa quasi cristica, capelli sul viso, completamente nuda e con il ventre rigonfio, dà l’addio al suo ruolo, abbozzando un dondolio inanime fra due pilastri di metallo. Altro elemento dominante nell’opera è il suono. In scena, ciò che non può essere raccontato con le parole, si svela attraverso la vibrazione sonora, in primis quella prodotta dalle pietre dello scultore Pinuccio Sciola. Poi il metallo graffiato da fondi di bicchiere che evoca il suono della disperazione nella mente di Macbettu. La bara di re Duncan, un tronco di legno cavo con delle pietre rumorose all’interno, viene fatta avanzare sul palco con movimenti capovolti alternati riproducendo il rumore dei temporali improvvisi. Il tonfo di una parte del muro di metallo cambia l’atmosfera sul palco, quasi a segnare l’inizio della fine del regno. Si illumina la scena, la parete crollata diviene un tavolo da banchetto in cui, fra vino, formaggio e pane carasau, si materializza il clima conviviale tipico di una festa paesana in onore di un santo patrono. È qui che lo spirito di Banquo appare al re e percorrendo il tavolo a passi lenti sbriciola sotto i suoi piedi i fogli di carasau: uno scricchiolare secco annuncia il disfacimento del regno. Macbettu attende la fine su un trono di paglia, che arriverà con la marcia della foresta: spuntano uomini con maschere di sughero e le urla dei “battitores”, (coloro che spingono i cinghiali verso le poste durante le battuta di caccia), stanano Macbettu. Il finale si consuma in un abbraccio mortale dove Macduff con la sua leppa, (il coltello tipico sardo) ha la meglio sul re ormai in ginocchio. Viene spontaneo chiedersi in che modo una lingua circoscritta a una realtà ristretta possa comunicare la stessa intensità e universalità dell’opera di Shakespeare senza ricadere nel folkloristico. Ebbene, Serra ci riesce. Non tenta di rendere contemporanea la storia del Macbeth attraverso le categorie del presente fatte di velocità di contatti, tecnologia comoda e competitività d’azienda, ma accompagna gli spettatori alla loro matrice umana, arcaica e più intima, fatta di sangue, ambizioni di onnipotenza, fallimenti di cui dover prendere consapevolezza e autorevolezza da difendere. Serra lo fa utilizzando elementi di una comunità affezionata alla memoria, ma senza enfatizzarla o volgarizzare l’opera shakespeariana. Semplicemente, come un buon Prometeo, ruba il codice della comunità ai pastori per restituirlo all’umanità intera. Qui, la lingua, i costumi e i confini di un’isola antica possono essere, nella loro peculiarità, strumenti efficaci di una comprensione più ampia, per lo svelamento di un codice insito in ciascuno di noi: non sardo, ma semplicemente umano. Un codice che ha la resistenza della pietra, la fine nella polvere e sete di vino.
Ornella Giua
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.