Il fragore di un terremoto invade la sala grande delle Fonderie Limone di Moncalieri, Torino. È il violento bussare della tragedia contro la tumba de is gigantes che sorge in fondo alla scena come un monolito metallico, sepolcro dal quale si caleranno delle inquietanti e nere figure in abiti femminili, demoniache e buffonesche. Sono le tre streghe del Macbeth di William Shakespeare, scendono dalle mura del castello di Cawdor con passetti veloci da ballu tundu e ricordano la maschera carnascialesca de Sa Filonzana (La Filatrice) – versione sarda delle Moire greche – interpretata, come vuole la tradizione, rigorosamente da uomini. Se Shakespeare avesse deciso di ambientare The Tragedy of Macbeth in una Sardegna arcaica piuttosto che in una cupa e lontana Scozia avrebbe chiamato Macbettu il suo protagonista. Il Macbettu di Alessandro Serra non è un riadattamento, è una traduzione del testo shakespeariano, e se la traduzione è sempre interpretazione, tradimento, quella di Serra si spinge oltre riscrivendo il testo classico in limba sarda.
Nella ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi spicca l’imponente regia di questo spettacolo (Premio UBU Miglior Spettacolo 2017, Premio ANCT 2017) che si colloca ben lontano da qualsiasi artificio folcloristico con grande successo di pubblico e di critica. Macbettu è un lavoro cupo, terragno, sprigionato dal sottosuolo della comunità nuragica insieme a tutte le sue forze ctonie. La lingua usata è aspra e cruda ma capace di risuonare con musicalità antiche. Otto gli attori in scena, interpreti solidi e puntuali dalla forte impostazione “biomeccanica”, dove l’esperienza emotiva appare forse secondaria rispetto al lavoro fisico-corporeo. Solo uomini, dunque, comprese le streghe e Lady Macbettu (Fulvio Accogli), scelta che lega a doppio filo la tradizione del teatro elisabettiano a quella del carnevale sardo.
Al palcoscenico, bianco di una polvere che si attacca addosso, fa da contraltare il nero dei costumi e della scena. Una notte perenne, caricata di oscuri presagi attraverso una calda illuminazione dal taglio espressionista: luci di un tramonto lontano, di un giorno che finisce, bagliori che filtrano attraverso porte spalancate su un altro mondo. E ancora pietra, ferro, legno, corda, sughero, tutti elementi presenti nello spazio, evocativi di una Sardegna primordiale, che rivive nello scricchiolio del pane carasau al passaggio dello spettro di Banquo sulla tavola imbandita o nel vino rosso con cui si ubriacano le guardie di Duncan ridotte al grado di porci ingordi e grugnenti. L’intero spettacolo è costellato di suoni legati alla primitività di una terra antica: non soltanto versi di animali, ronzii ma anche schiocchi, fischi, le grida dei pastori e un riecheggiare di campanacci preso in prestito dai Mamuthones, maschere tipiche del carnevale di Mamoiada.
La scenografia, supportata da un saldo substrato coreografico (come i lazzi da Commedia dell’Arte a opera delle streghe), è composta da quattro grandi tavoli metallici accostati insieme in verticale, a formare le mura invalicabili del castello. Questi si trasformano, declinandosi in banchetto, in portone, nella foresta di Birnam che avanza inesorabile quando gli attori indossano maschere di sughero, figure animalesche che li rendono simili ai Treant, gli uomini albero della letteratura fantasy.
Macbettu (Leonardo Capuano) gioca a «unu, duos, tres… tocca muru» con i suoi fantasmi, costruisce con le pietre il proprio nuraghe, impilandole una dopo l’altra come le tessere che compongono la trama dei delitti che ha commesso, ma alla fine resta solo un sovrano con un trono troppo piccolo per la sua sanguinaria ambizione: una seggiola di paglia su cui dondola come un bambino colui che ha ucciso il sonno.
foto di Alessandro Serra
L'autore
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Laureato in Istituzioni di regia all'Università di Bologna, si interessa di arti performative e di critica teatrale. Collabora con Emilia Romagna Teatro Fondazione, affiancando all'attività di studioso quella di dramaturg.