Viaggiamo il 20 ottobre 2023. Siamo venti persone riunite di fronte al Museo del Novecento, alle 16 di un pomeriggio il cui cielo si è appena rischiarato. Scegliamo di lasciarci condurre. L’uomo che cammina – con Antonio Moresco è un percorso di ben quattro ore e mezza in solitario silenzio. Un gruppo estraneo al mondo che attraversa, ignaro del proprio scopo, ha l’unica certezza di dovere seguire un uomo. La regia di Leonardo Delogu e Valerio Sirna, fondatori del progetto DOM, ispirato all’omonimo manga di Jiro Taniguchi, disegna in questa versione una mappa esclusiva per Milano; una linea che da piazza Duomo, arriva a Corvetto, a Chiaravalle, si perde nel bosco e poi si ritrova nella voce di una cantante, in un bicchiere di birra, nelle vasche di una piscina. È un percorso che indaga la diversità dei luoghi, che penetra lo stacco fra le atmosfere, i quartieri. L’uomo anziano che cammina davanti a noi guida i nostri passi, il nostro sguardo. I colori dell’autunno tardivo, gli odori del cibo, della metro, le voci che sentiamo diventano esperienza sensibile. È la vita quotidiana camminata su un piano diverso, quello di chi deve essere attento. Siamo a uno spettacolo in fondo, o forse no?
Da subito la percezione di ciò che è reale si confonde con ciò che potrebbe essere studiato. Quello che vediamo è sottilmente in bilico fra il casuale e l’intenzionale. La performance diventa infatti un accumulo, un susseguirsi di situazioni, di passi che noi stessi compiamo e di cui progressivamente ci sentiamo complici, partecipi.
Il museo del Novecento è il luogo che osserviamo, che tiene lontani, distanti. Il luogo dove guida umana e guida artificiale, una voce metallica e robotica, si uniscono. L’uscita traumatizzante dal museo, il ritorno al caos cittadino, ai rumori della quotidianità, comincia il nostro vero cammino consapevole. Non siamo più nel Novecento, questo è il Ventunesimo secolo e Dove stiamo andando? Servirebbe non solo una rivoluzione, ma una insurrezione di specie, sentenzia una voce maschile fuori campo, nelle cuffie che ci hanno guidato nel museo. Passiamo attraverso piazza Duomo, proseguiamo in via Torino verso la metro gialla di Missori. Scendiamo nel ventre della città e ritorniamo in superficie, a Corvetto. Qui cambia la musica. Letteralmente una canzone comincia a risuonare ad alto volume, particolari inquietanti, curiose coincidenze accadono davanti ai nostri occhi. Il nostro passo si fa più sicuro, più circospetto. Il quartiere periferico lascia spazio al verde di un parco, oltre al centro culturale Fucina Vulcano, oltre il campo sportivo. Fuori dalla città l’umido del Parco della Vettabbia si attacca sulla pelle. Giovani ragazzi appaiono nelle radure, vicino ad una palude. Dalle casse, che un ragazzo porta in spalla, toni più ambient accompagnano l’ingresso nella natura, verso sentieri poco percorsi che attraversano binari ferroviari abbondonati, coperti di foglie cadute.
Il senso di perdersi è piacevolmente inquietante. La domanda: “Dove stiamo andando?” diventa sempre più pregnante, profonda. Le gambe camminano ormai da ore, la fatica fisica incombe. Il viaggio e il cammino perdono i loro contorni, il susseguirsi di cose viste e dei passi consumati ingombra la mente, cominciamo a perderci. Il sole comincia a calare. Nel 2000 non so se vivrò ma il mondo cambierà, il sole scenderà su di noi risuona in mente la canzone di poco prima. Dopo l’ingresso all’Abbazia di Chiaravalle, mentre al buio Antonio Moresco, l’uomo che seguiamo, scrittore protagonista dell’edizione milanese della performance, racconta le sue peregrinazioni notturne milanesi, durate anni, non c’è speranza. La misura dei passi non si ritrova, i piedi strascicano a terra. È il reingresso nella città la salvezza. La gioia di condividere un bicchiere di birra e una fetta di pizza ascoltando una donna che canta, noi con le persone raccolte come ogni sera in piazza. Diventiamo quartiere. Riabitiamo lo spazio, ci fermiamo e assaporiamo. Guardiamo le persone nuotare nelle vasche della piscina e di fronte al civico n. 10 di un palazzo di Corvetto, terminiamo il nostro cammino. L’uomo entra, sale al balcone e ci guarda. Le parole di Tenco attirano altri condomini, che escono, le luci a grappoli si accendono. L’uomo che cammina è un viaggio, dentro e fuori di noi, un percorso che intreccia e cuce la nostra percezione con il mondo che attraversiamo. Non importa più distinguere ciò che è casuale da ciò che è intenzionale. Ogni persona osservata, ogni sconforto vissuto fanno parte della stessa realtà complessa e sfumata. È reale ciò che viviamo e condividiamo.