In equilibrio a sette metri dal suolo o in apnea in una vasca, l’Uomo Calamita riesce in imprese straordinarie, ma i suoi veri poteri paiono inutili: gli si appiccicano i metalli addosso. Tuttavia, nel mezzo del secondo conflitto mondiale, la sua astuzia e il suo magnetismo saranno capaci di combattere il regime. L’artista circense Giacomo Costantini della compagnia El Grito e Wu Ming 2 di Wu Ming Foundation incrociano le loro arti realizzando L’Uomo Calamita, un oggetto narrativo non identificato, in scena al centro culturale polivalente Instabile Chapiteau (Firenze) dal 2 al 5 marzo 2023 (da giovedì a sabato ore 21.30, domenica ore 16.30). Nato dalla contaminazione funambolismi e parola, la performance – che ha visto il suo debutto nel 2019 al Teatro Vascello di Roma – è un esperimento tra circo e letteratura: la costruzione del soggetto narrativo è andata di pari passo alla stesura della drammaturgia circense; una contaminazione il cui risultato «è uno spettacolo da leggere e un libro da vedere»
Come è iniziata la collaborazione con Wu Ming e quali sono stati i presupposti di partenza per l’ideazione dello spettacolo Uomo Calamita?
«L’incontro con Wu Ming 2 è avvenuto durante un suo laboratorio sulle tecniche di scrittura, a cui ho partecipato. Come artista circense lavoro con il linguaggio non verbale, costruendo drammaturgie basate non tanto sull’aspetto narrativo, quanto su quello evocativo. Volevo quindi sperimentare il confine e il limite della pratica circense contemporanea – che vede la drammaturgia come la scia di corpi in movimento – e addentrarmi totalmente nel racconto. Questa mia ricerca ha suscitato la curiosità di Wu Ming 2 e da qui è nata una collaborazione e un’amicizia. Il primo progetto pensato insieme è stato Piccolo Circo Magnetico Libertario (2014), messinscena ispirata all’Armata dei sonnambuli dei Wu Ming. Già allora avevo in mente il personaggio di Uomo Calamita e riflettevo sul fatto che, in quanto supereroe dai poteri inutili, per esistere avesse bisogno di un solido background narrativo, di una sorta di mito. Ho quindi provato a stendere un soggetto e da questo Wu Ming 2 ha iniziato a scrivere il testo. Letteratura e circo si sono quindi stimolati a vicenda, un fatto piuttosto raro se non unico: nella pratica circense scrittura del testo e della scena, se già è difficile vederle insieme, anche quando ci sono non procedono quasi mai di pari passo».
Restando su questo inusuale incontro del circo con la letteratura, quali sono gli elementi e gli aspetti propri della narrazione letteraria che sono andati a contaminare la tua pratica circense e quali, viceversa, le caratteristiche del circo che hanno influenzato la scrittura letteraria?
«L’integrazione tra le due arti è avvenuta in maniera molto organica e naturale, senza bisogno di schemi o metodologie che andassero ad abbattere le barriere tra i due linguaggi. Questo perché il circo lascia un enorme spazio al racconto, non sapendo narrare una storia ma soltanto suggerirla ed evocarla. Nel mio ruolo di regista ho cercato allora di utilizzare il circo nella sua funzione inerziale della scena. Per intenderci, se mi rivolgo al pubblico dicendo “mio padre è morto due settimane fa” è molto diverso da fare un salto mortale, fermarsi, guardare gli spettatori e dire “mio padre è morto due settimane fa”. Quest’ultima modalità funziona su un altro livello perché c’è la verità del rischiare di spaccarsi l’osso del collo, c’è qualcosa di primordiale che tocca tutti e che si lega anche alla teoria dei neuroni specchio. In altre parole il racconto, se inserito nel momento giusto, sfrutta l’inerzia circense e fa in modo che le cose non si sommino ma si moltiplichino. Il circo ha quindi contaminato la letteratura pur lasciandole tutto lo spazio per esprimersi. Gli unici interventi che ho chiesto sul piano drammaturgico sono stati per esigenze di ritmo dello spettacolo. La contaminazione è inoltre avvenuta dal semplice incontro fra le due pratiche: Wu Ming 2 aveva un soggetto e una storia, io stavo in equilibrio a sette metri di altezza. Da questo reciproco scambio ci siamo lasciati ispirare: lui, come scrittore, dalle mie acrobazie e dai loro rischi; io, come circense, per la prima volta mi sono portato in scena il background di un personaggio e la sua storia, aspetti che solo la letteratura può dare».
In merito al tema dello spettacolo e al periodo storico nel quale è calato, da dove siete partiti e di quali materiali si è alimentata la vostra creazione?
«Tutto è partito proprio dal personaggio Uomo Calamita e dalla mia volontà, e forse intuizione, di collocarlo all’interno della Seconda Guerra Mondiale dandogli superpoteri un po’ inutili, ovvero quelli di attaccarsi il ferro addosso. Nel cercare della documentazione, ho trovato diverse conferme del fatto che in quel periodo molti circensi e sinti venissero perseguitati. Trovammo infatti informazioni su una certa Brigata Leone Solina, un battaglione partigiano composto soltanto da artisti circensi. Questo riferimento ha di certo confermato le intuizioni iniziali e innescato la spinta per la creazione di Uomo Calamita, un personaggio fittizio che di giorno è artista di strada e la sera agisce con azioni di sabotaggio contro i nazifascisti».
L’Uomo Calamita quindi non è propriamente un supereroe e la sua collocazione temporale è curiosa: in quel periodo era in corso anche uno scontro culturale tra il superuomo reinterpretato dai nazisti e i supereroi americani cartacei che combattevano Hitler nelle pagine dei comics. Avete fatto una riflessione attorno a questo, ovvero sulla differenza tra superuomo e supereroe?
«Non abbiamo fatto una riflessione specifica sul tema ma, anche se non verbalizzato, il terreno di pensiero è quello. A ben pensarci è dal 2015 che ragioniamo sull’Uomo Calamita e di parole sul concetto di supereroe ne sono uscite molte. C’è una particolare dinamica che coinvolge il piano letterario e quello della realtà, perché il circo ci riconnette sempre al presente: quando si vede un trapezista che se cade rischia di morire, si sta vivendo quel preciso momento, non c’è bisogno di una sovrastruttura narrativa che, anche se ci fosse, la si perderebbe facilmente. Per esempio, c’è un momento nello spettacolo in cui io sto in equilibrio su una sedia a sette metri di altezza da terra e sebbene sia tutto collocato all’interno dello svolgimento narrativo, il pubblico non può che stare lì col naso all’insù e il fiato sospeso. Quello è il supereroe che raccontiamo, un superuomo con delle doti che lo rendono effettivamente straordinario».
Il vostro è un racconto tra immaginifico, finzione, realtà e magia, qualcosa che anche nei romanzi di Wu Ming ritroviamo spesso, come nell’ultimo Ufo 78 (Einaudi 2022). Un possibile livello di interpretazione ci viene dato dal tema dell’elettromagnetismo nel circo, fortemente presente negli spettacoli di inizi novecento, che – per la sua apparente connotazione magica e lo scietticismo scientifico contemporaneo – sembra essere tornato di moda con le teorie complottiste. Il circo può essere uno strumento per ridefinire i confini di ciò che è reale e ciò che è semplice narrazione?
«Personalmente sono molto interessato a quella zona liminale tra il gesto rischioso/virtuoso del circo (come un’evoluzione al trapezio o camminare sul filo) e l’impossibile della magia. C’è un terreno di mezzo, un luogo d’indagine nel quale mi trovo da tre-quattro anni e che ho toccato con mano la prima volta proprio con L’Uomo Calamita. È qualcosa di molto concreto, se ci pensate bene: immaginatevi che io prenda una monetina, la metta sul palmo della mano e subito dopo la colga di nuovo con l’altra e la faccia sparire. Molto probabilmente, se eseguissi tutto molto bene, non capireste esattamente come ho fatto, ma potreste comunque intuire che c’è voluta una certa dose di abilità tecnica, di “manipolazione” si dice in gergo, nel far sparire la monetina. Ma se prima di far questo io avessi usato la moneta per dei giochi circensi – come lanciarla in aria e riprenderla col naso (molto difficile, ma possibile!) – e solo dopo un’altra serie di gesti acrobatici farla effettivamente sparire, allora starei alzando l’asticella del vostro limite dell’incredibile. In questo modo, quando arriverete all’impossibile, lo spaesamento sarà ancora maggiore. Il cervello dello spettatore, abituandosi a vedere il circense giocare col rischio, cerca costantemente di prevedere dove e come lui risolverà tale situazione: tuttavia, di fronte all’impossibile non ha nessuna soluzione da proporti. È un modo per giocare con le aspettative del pubblico e portarle sempre di più al limite, con l’obiettivo di far arrivare lo spettatore al punto di dover credere per forza all’impossibile. Gli elementi incantati non sono certo una novità, si pensi alla letteratura magica, da Máquez a Calvino, sono coefficienti di stupore e meraviglia, ma vederlo dal vivo, con i propri occhi, è tutt’altra cosa. Così, anche la storia che raccontiamo con questo spettacolo diventa più plausibile dopo che si è visto con i propri occhi che non è “solo” narrazione. L’Uomo Calamita diventa allora per una parte del pubblico un personaggio realmente esistito: tanti dopo lo spettacolo mi hanno chiesto come si chiamasse davvero l’Uomo Calamita».
La musica ha un ruolo fondamentale nel circo, in cui si può dire che il vero motore musicale sia il ritmo. In questo spettacolo avete lavorato adattando l’album Sequoyah Teeth (2018) di Fabrizio Baioni “Cirro”: quale processo avete seguito e perché proprio questi brani e non un progetto pensato da zero?
«Sono d’accordo sul fatto che il ritmo sia l’elemento alla base del circo. Lavorare a un progetto musicale già esistente e con il batterista Fabrizio Baioni “Cirro” con cui avevo collaborato in precedenza, ha facilitato l’ideazione e costruzione della scena. Nel circo ci sono due grandi scuole di pensiero sul processo creativo: quella più vicina alla pratica “tradizionale”, che prevede due-tre settimane di incontro in cui ognuno porta il proprio numero, si mettono in sequenza, si sceglie un tema e si riveste il tutto secondo l’argomento definito; e quella del circo contemporaneo, che invece necessita di un tempo lungo di creazione, anche due- tre anni, perché parte completamente da zero. L’Uomo Calamita ha avuto un periodo di gestazione disteso, ma la carica per definire meglio il progetto è scattata dall’intercettazione di un bando che ha inevitabilmente ristretto i tempi: la strada più consona era dunque quella di scegliere un musicista di cui avevo piena fiducia e che potesse farmi delle proposte. Mi sono poi reso conto che la batteria era lo strumento perfetto per lo spettacolo, così come le basi elettroniche modificate da vivo. Questo approccio ha influenzato la performance tanto che abbiamo “metrizzato” tutto sul suono: il testo di Wu Ming 2 è come se fosse un brano hip hop, le cui barre sono misurate sulla musica. Ho scelto quindi le canzoni che mi piacevano dall’album di Cirro Sequoyah Teeth dicendogli che volevo stare su quei parametri e avere quel tipo di sensazione, di atmosfera. Da qui abbiamo completamente decostruito la base musicale lasciando solo i suoni, i pattern della batteria e alcuni loop».
Musica, stupore, magia e meraviglia, Uomo Calamita – si legge – è anche uno spettacolo per i più piccoli (dai 10 anni in su). A che livello parla ai/alle bambini/e questa performance e forse, più in generale, il circo?
«Il circo più che coinvolgere anche i bambini è capace di coinvolgere anche gli adulti. Lo stupore e la meraviglia – a cui purtroppo ci siamo disabituati – e la semplicità di stare col naso all’insù a vedere se il circense riuscirà o meno a fare quell’azione pericolosa, sono emozioni che ci accomunano tutti, specie se vissute con l’eleganza del circo che non ostenta virtuosismi da supereroe, ma ci mostra l’enorme potenziale insito in ognuno di noi. Il circo ci restituisce un grande atto di libertà. Uomo Calamita lo abbiamo proposto anche a bambini di sei anni e ammetto che non credevo sarebbero resistiti per tutta la durata dello spettacolo. Mia figlia, la prima volta che mi ha visto fare il numero di Houdini nella vasca, aveva quattro anni: verso la fine della performance, a circa al terzo minuto di apnea e quindi nell’apice del fiato sospeso del pubblico, lei si alzò e disse ad alta voce: “Papà? Ma quando esci dall’acqua?”. La tensione che si creò tra il pubblico fu indescrivibile: dovrei pagarla per farglielo fare ogni volta! Questo è solo un esempio per dire che i bambini non abbiano la percezione del rischio come ce l’hanno gli adulti, dimostrandosi più interessati a sapere come hai compiuto tale gesto e più capaci di stupirsi di fronte alla magia e all’abilità. Il circo racconta la relazione tra vita e morte, perché di fatto, se sbaglio, muoio. A questo si aggiungono le nostre velleità di raccontare delle storie con un significato, ma sono solo una cornice. Il bambino non ha nessun problema a gestire questa tensione, semmai è il genitore che proietta le proprie paure su di lui, preoccupandosi della qualità della sua esperienza quando invece dovrebbe soltanto lasciarsi andare. Il circo, nella migliore delle ipotesi, fa tornare l’adulto un po’ bambino, pronto a godersi la meraviglia di un atto di libertà».
Gli autori
-
Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.
-
Blogger, scrive di teatro per Altre Velocità e cura il blog di critica rock "Una volta ho suonato il sassofono". Ha condotto nel 2017 il podcast di musica underground Ubu Dance Party.