Lo scorso aprile siamo stati a Sansepolcro, al Teatro della Misericordia. In occasione di “Kilowatt tutto l’anno” e prendendo parte a un progetto di osservazione a cura di Stratatagemmi Prospettive Teatrali, abbiamo pututo incontrare Alessandra Crocco e Alessandro Miele, al lavoro attorno a Lost Generation, spettacolo che debutterà il 26 giugno 2017 al Napoli Teatro Festival. I due artisti del Progetto Demoni erano nel mezzo delle domande di creazione, e da loro ci siamo fatti raccontare le origini del percorso, le questioni che lo sostanziano, i riferimenti culturali dietro alla scelta di portare in scena le biografie di Francis Scott Fitzgerald e di sua moglie Zelda. Il risultato è la conversazione che segue, che crediamo abbia la qualità del “ritratto”.
Crocco e Miele, residenti a Lecce, sono alla loro seconda produzione e nelle pieghe del dialogo si leggono in controluce anche alcune interrogazioni attorno alle possibilità, alle difficoltà e potenzialità di fare un teatro indipendente oggi.
«Non dimenticare che nel mestiere di attore solo i primi 30 anni sono duri»
Clark Gable
L’inizio del lavoro
Alessandro Miele
L’inizio parte da una fine, dalla Fine di un Romanzo, il nostro ultimo spettacolo ispirato ai Demoni di Dostoevskij. Per tanto tempo abbiamo affrontato il romanzo producendo una forma spettacolare che si dava per frammenti, episodi fruibili singolarmente o uno di seguito all’altro, poi siamo arrivati a uno spettacolo che destrutturava il romanzo, una seconda tappa che consideriamo in realtà ancora non conclusa, anche se già sappiamo che difficilmente avremo modo di riprendere il lavoro.
In Lost generation torniamo ad affrontare alcuni temi che avevamo già incontrato nei Demoni: il fallimento, la caduta e il tentativo di rialzarsi che però produce uno scivolare e ricadere continui.
E’ la storia dell’uomo che possiede tale tensione: da Faust a Icaro è un continuo andare alla ricerca delle Colonne d’Ercole, un mettersi alla prova spingendosi fino al fallimento.
La nostra idea è portare sulla scena le vite di Francis Scott Fitzgerald e di sua moglie Zelda, guardando da vicino il limite dei trent’anni, uno scalino che vive anche lo stesso Novecento. Si può parlare di un’infanzia del Novecento, non proprio spensierata dato che c’è stata la Prima Guerra Mondiale, e subito dopo di un’adolescenza con il boom tipico di quell’età: l’entusiasmo, le speranze, l’idea che le forze siano illimitate.
Alessandra Crocco
Un riscontro cronologico preciso lo abbiamo trovato nelle biografie di Scott e Zelda: il loro entusiasmo di ventenni corrisponde agli anni venti, entusiasmo che entra in crisi dopo il 29, come il secolo, alla soglia dei loro trent’anni. Lei entra in clinica per schizofrenia, lui è sopraffatto dalla crisi dello scrittore a causa di vicende personali e professionali. Scriverà e riscriverà per nove anni Tenera è la notte, alla ricerca continua di quel salto in avanti. Negli anni della giovinezza la coppia è passata dall’assoluta sperimentazione alla stasi, dal fervore al fallimento, un po’ come il secolo nel quale vivevano.
M – Fatto che si rispecchia anche nei romanzi. Tenera è la notte, per esempio, è la storia di un fallimento personale.
C – Nelle lettere e nelle occasioni pubbliche i due dichiareranno che negli anni ’20 si pensava di non avere il diritto di fallire, dal momento che tutte le possibilità sembravano aperte. Scott in effetti pubblica un romanzo, va a New York e diventa famoso e ricco, la stessa cosa accade a lei, con il suo desiderio di trasformare la vita in opera d’arte. Eppure dal successivo fallimento non si alzeranno più: lui morirà a poco più di quarant’anni di infarto, lei a trent’anni comincerà un calvario di ricoveri in cliniche psichiatriche e morirà proprio nell’incendio di una di queste. Eppure il tentativo di rialzarsi è costante e si nota anche come traccia nei romanzi, dove pezzi di vita e frammenti dei loro accadimenti entrano a fare parte dell’opera letteraria.
«La prova di un’intelligenza di prim’ordine sta nella capacità di avere in testa due idee opposte e di continuare lo stesso a funzionare. Perciò ad esempio uno dovrebbe essere in grado di capire che la situazione è disperata e di essere comunque determinato a cambiarla».
Francis Scott Fitzgerald
M – Scott e Zelda vivevano sotto i riflettori, la loro biografia diventava romanzo, erano la coppia più famosa d’America e anche i loro litigi erano trascritti.
Nel 1933 litigheranno alla presenza dello psichiatra di Zelda, mentre ogni parola veniva stenografata. Questi e altri segni biografici, insieme a romanzi e racconti, sono al centro del nostro processo di lavoro.
Tornando ai trent’anni, credo che sia un’età in cui ci si pongono delle domande sulla propria vita, si traccia un primo bilancio, o almeno così a noi sta accadendo. Magari senza trovare risposte definitive e sapendo che le diverse età producono risposte diverse. Lo dico perché vorremmo presentare questi personaggi in tre fasi diverse della vita: nell’inconsapevolezza della gioventù, nella prima consapevolezza dei trentenni e in una seconda consapevolezza successiva.
La recitazione non recitazione
M – Da sempre nel nostro lavoro cerchiamo una “recitazione non recitazione”: sfondare la finzione ma da dentro la rappresentazione, facendo accadere un incontro fra chi recita e chi guarda, creando una bolla, un momento di sospensione. Ci illudiamo di fare apparire il personaggio, ma anche di farlo sparire, costruendo gradualmente dei “momenti” insieme agli spettatori, come se comandassero gli attimi, gli accadimenti e non tanto la drammaturgia, le parole, la storia e i personaggi. Il nostro è una sorta di linguaggio “tradizionale senza codici”: agiamo per sottrazione, speriamo che le nostre siano parole sospese che galleggiano. Cerchiamo di allontanarci da ogni situazione che rimanda a una rappresentazione direttamente convenzionale.
I Frammenti di Dostoevskij sono nati evocando il testo: ne imparavamo quantità considerevoli, ma poi aspettavamo, attendendo la magia di un momento, facendo dei tentativi dove su alcuni testi “appoggiavamo” delle situazioni. Così abbiamo costruito dei piccoli blocchettini, come degli haiku, un grande training per arrivare a dire qualcosa di estremamente conciso.
C – Questo metodo lo abbiamo ritrovato anche in Fitzgerald, uno scrittore interessato ai frammenti, alla “follia delle quattro del pomeriggio”; alle nuche delle persone, le mani, a momenti laterali da distillare. Tenera è la notte è costruito su momenti forti, lui segnava tutto quello che gli accadeva sui suoi taccuini, aveva un modo di lavorare per illuminazioni.
M – Queste dimensioni di verità, trovate in prova e riportate in luoghi non teatrali, cosa diventano se portate in teatro, in uno spazio completamente vuoto? Adesso ci troviamo in una seconda tappa, come se fosse un secondo passo della nostra ricerca recitativa. Cerchiamo di arrivare a una verità, provandola e cercandsiola sulla nostra pelle, magari facendo la stessa strada che hanno percorso altri ma ritrovandola noi in prima persona.
I testi, le letture, la scrittura di scena
C – Abbiamo fatto tante letture insieme e separatamente, poi ci siamo confrontati in cerca di legami. Stiamo lavorando molto usando la tecnica del collage, unendo pezzi da diversi dai romanzi e dalle lettere, cerchiamo di stabilire delle connessioni per capire se ci torna qualcosa, in modo da conferire vita propria a frammenti diversi. Arriva poi il momento in cui i testi vengono messi alla prova sulla scena, e spesso tutto cambia completamente. È un continuo fare e disfare, ed è un collage artigianale: stampiamo, ritagliamo, usiamo lo scotch, andiamo in scena con dei papiri, spostiamo e incolliamo, poi ci dimentichiamo le connessioni che avevamo creato. Così nasce il testo.
M – Non ci interessa seguire pedissequamente le nostre idee di partenza. Mi piace chiamare il nostro metodo “scrittura di scena vincolata”. C’è uno che sta dentro e deve “vivere”, mentre l’altro da fuori codifica, fissa le battute, capisce cosa c’è nell’aria. Mettiamo a reazione tanti elementi, misuriamo l’effetto di frammenti uniti secondo logiche costruite da noi.
C – La scrittura di scena determina tutto, facciamo delle ipotesi di scrittura, ma restiamo attori, il nostro scrivere si sostanzia nel fare, nel vedere, nel fare vedere al pubblico.
M – Non vogliamo mettere in scena delle idee, ma fare funzionare la scena. Un grande drammaturgo probabilmente lavora su un’idea, mostrandola nella scrittura. Invece noi pensiamo che sia la scena a dovere cercare una vita, non il testo scritto.
M – Vorremmo raccontare la loro storia senza narrarla, ma anche il loro periodo storico. Lavoriamo su qualcosa di sospeso, che possa stare a metà fra Alessandro e Alessandra, fra Scott e Zelda, tra oggi e allora, qualcosa che vada in un senso e nell’altro, si sposti di continuo.
I due personaggi erano in un qualche modo attori della loro stessa vita, e questo ci aiuta. Vivevano all’estremo, ostentando, sapevano di essere sotto i riflettori.
C – Erano simbolo di un’epoca e di una generazione intera, la Lost Generation, ma erano simbolo anche di una città, New York. Sapevano di esserlo, dichiararono di avere fatto del loro matrimonio un’opera d’arte, ragionavano sulle loro vite come strategia per tenersi in vita e per lavorare, per nutrirsi. Tutti i libri di Scott parlano indirettamente di Zelda.
M – E Fitzgerald raccontò anche un suo momento di profonda crisi. In un periodo in cui era indebolito dall’alcolismo, dai debiti, dalle preoccupazioni per la salute di Zelda, si chiuse in un albergo con una scorta di carne in scatola per non vedere nessuno e scrivere.
C – Scrisse gli articoli di Crack Up, dove racconta del crollo e di quando ci si accorge che qualcosa si è rotto ma è troppo tardi per rimediare. In quegli articoli Fitzgerald sostiene che la condizione dell’adulto senziente è infelice, restando però sempre molto autoironico.
La crisi negli anni ’20 del novecento e oggi
C – Noi siamo stati adolescenti negli anni ’90, dove ci erano state prospettate una serie di possibilità. Poi si è fermato tutto, anche noi in qualche modo ci sentiamo generazione perduta.
M – I riferimenti storici attuali sono il nodo sul quale stiamo sbattendo la testa. Non vogliamo “dire”, esplicitare un parallelismo fra due periodi storici divisi da cento anni di storia. Per adesso pensiamo che basti accostare lo spirito di queste fasi storiche, creando così un orizzonte comune.
C – Se i personaggi incarnano quello spirito, inteso come dinamismo e modo di porsi verso la vita, se le loro parole e i corpi ci raccontano quella tensione allora crediamo che si creeranno dei rimandi naturali che riportano all’oggi. Ma non vorremmo “spiegarli”.
M – Loro il boom lo vivevano in modo incosciente e questo lo capiranno solo in un secondo momento, dopo la crisi. Si accorgeranno che prima c’era qualcosa di sovrastimato: si sovrastimavano le forze di un paese e di un’intera generazione.
C – Fitzgerald scrive: «La mia vita era stata un’attingere a risorse che non possedevo, mi ero ipotecato spiritualmente e fisicamente fino al collo».
M – E tutto questo lo capisce dopo, dentro la crisi ci si accorge che prima si stava meglio, ma anche che si stavano sovrastimando delle forze. Dentro la crisi si pensa che le opportunità siano precluse. Non ci ricorda da vicinissimo ciò che succede nei nostri anni?
C – In My Lost City Fitzgerald parla di New York, città con diverse fasi. Tornato a New York dopo il crollo di Wall Street, sale sull’Empire State Building e scopre “l’errore della città”
«Colmo di vanaglorioso orgoglio, il newyorchese era salito lassù e aveva visto sgomento ciò che non aveva mai sospettato, che la città … aveva i suoi limiti; dall’edificio più elevato, egli vedeva per la prima volta che la città si dissolveva nella campagna tutto intorno, in una distesa verde e blu che era l’unica cosa sconfinata. E con la terribile presa d’atto che New York, in fin dei conti, era un città non un universo, il magnifico castello che il newyorchese aveva eretto nella sua immaginazione crollò fragorosamente».
Ritorna quindi il tema dell’uomo che cade perché prende coscienza dei suoi limiti di cui avevamo parlato all’inizio.
La verità della scena, come attori
M – Come dicevamo il nostro metodo prevede di metterci spesso nell’ottica di un occhio esterno che vede, fissa e codifica. Da dentro è difficilissimo cogliere tali momenti. Prima hai parlato di immedesimazione ma io non so cosa significhi, né che cosa sia il personaggio… se separatamente emergono l’immedesimazione, il personaggio, la vita dell’attore c’è qualcosa che non funziona. Se invece questi elementi si fondono qualcosa accade. C’è la forma e l’uscita dalla forma, ci sono i pensieri dei personaggi e quelli degli attori, c’è un dentro e un fuori costante.
C – Quando una forma prende vita di fronte allo spettatore di solito l’attore è proteso verso qualcosa di esterno, pur stando dentro una forma necessaria per non perdersi.
M – Si crea una bolla dove si è insieme, attori e spettatori. Se si prova a ricostruire “che cosa sia successo”, spesso non ci si ricorda del tutto, si capisce solo che si è andati da un’altra parte, insieme. La verità non è una questione di naturalismo, non c’entra nulla. In Lost Generation questo processo si complica, perché siamo entrambi in scena, non c’è uno che guarda e l’altro che agisce.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.