Ambiente domestico, interno, notte/giorno, Daria si mette in parole, continuamente dice. L’origine è nello sforzo costante di anticipare l’inizio, nel movimento continuo che tradisce, che tende all’opposto queste approssimative indicazioni. L’origine del mondo pone un avvio, sceglie una vita e la porta avanti, ma solo per guardare all’indietro.
L’ambiente non respinge: si presenta familiare, fatto di pochi oggetti comuni, luminoso di un bianco tenue e di elettrodomestici dalle tinte pastello. Il palco non aggredisce, non rigetta, ma tutto è distante, isolato, e nella sua ampiezza (o profondità) esasperata gli oggetti, le attrici, sembrano poter svanire da un momento all’altro: i deboli colori paiono affievolirsi in quella stessa luce che li rende possibili. Daria si muove lentamente tra il tavolo e il frigo, vagando in questo interno inospitale che le sfugge costantemente, che le scivola di mano come l’arancia rotolata ormai fuori dal palco. Non riesce a farlo suo quello spazio, come se fosse ospite costantemente, all’esterno, fuori, in altro e in altri, proprio nel momento, nel luogo in cui dovrebbe essere più intima a sé. La lavatrice non risponde ai comandi e va addomesticata a calci, l’uovo sbattuto e saltato in padella: la presenza viene fatta sentire a quell’indistinto di mensole e sportelli, ma neanche questo funziona e Daria stenta a trovare un legame col mondo. Continua la sua vita nelle parole cercando una definizione, ma si perde nel ritmo serrato dei suoi pensieri che domandano, riformulano, riformano. Eppure sul palco non è sola. La figlia, la madre, vicine loro malgrado, estranee eppure intimamente legate, mediano il mondo esterno: Federica e Sofia, figure soglia, si trasfigurano in psicanalista e in marito, la spingono a “altro”. La loro presenza è esasperante ma, paradossalmente, aiuta, apre: in cucina c’è posto per chi lava e per chi, al suo fianco, asciuga. In scena c’è la mancanza, la fragilità di una vita, che non è debolezza o semplice rappresentazione di una depressione: Daria, sospesa nel vuoto, è nello sforzo di abitare, di fare i conti con la condizione originaria, con quel nulla che lega e separa da se stessi, che lega e separa dagli altri.
Debuttava un anno fa, all’interno di Ztl_pro, L’origine del mondo, ritratto di un interno della Compagnia Malebolge; era il primo episodio, Donna melanconica al frigorifero, e inaugurava un progetto che ancora, allora, non riusciva immaginare un termine, ma al contempo percepiva, richiedeva un’unità che l’autrice ha chiesto di aspettare, rispettare. La tensione apparentemente ossimorica del titolo racchiude in sé l’attrazione verso un affresco generale, infinito, e la sua chiusura in unità spaziale, vitale. Lo spettacolo si è costruito lungo un anno, episodio su episodio, seguendo produzioni e co-produzioni festivaliere (ad Armunia con Figuranti del dolore al lavatoio, a Santarcangelo con Certe domeniche in pigiama) e si è concluso in cartellone al Teatro India, lo scorso febbraio, con la quarta e ultima parte, Il silenzio dell’analista. Ma L’origine del mondo non ha un vero termine: pone un punto, sceglie un finale che potrebbe essere un nuovo inizio, che sprona lo sguardo al movimento che resta.
Lucia Calamaro guarda verso l’origine, verso il cominciamento che ci immerge nel mondo. Non si mette in astrazioni, ma pretende di porsi in un interno, in una vita coi suoi tempi e i suoi corpi, con le sue crisi, pressioni e mutamenti, con il suo linguaggio e i suoi sensi quotidiani. L’origine, però, non è quella nascita, quel pianto, quel giorno, quella morte, ma è il passo indietro verso la condizione, verso il nulla o il non senso che li precede, che li genera. Lucia Calamaro mette in scena una vita e la tende, la mette in crisi, la inceppa per osservarla smarrita: come sopravvive chi sa di mancare a se stesso? chi sente il vuoto inaugurare e ingurgitare ogni cosa, come reagisce, come riesce a ricostruire un desiderio, a rimettersi nel mondo ormai desolato?
La Tana
Nel buio della cucina, un profilo magro disegnato dalla luce di un frigorifero aperto, sta e rovista, immerso nelle provviste. In quella luce fioca cerca, immerge le dita in cibi insipidi, da troppo o da troppo poco, lecca e impasta la bocca, ma non trova. C’è forse chi sa stare al mondo, chi adegua i suoi bisogni o comunque li riconosce, chi è sapiente o saputo. Lei, però, non è più affamata, non meno di chiunque, non è meno nauseata, non più di ciascuno ma resta vuota, o meglio tenta un colmo, una pienezza che non arriva mai. L’interno, la tana dalla quale costruire non è che un vuoto bisognoso di consistenza, di forma. Daria Deflorian sta sul palco come ogni cosa sulla superficie: è sottile, delicata, ma la sua è una lotta per riuscire a non dileguare del tutto nello sfondo, è un morire sempre di più per mantenere quella semplice presenza.
Il Mondo
Il mondo esterno irrompe con uno schiaffo, in urla piene di buon senso, parla una lingua cinica, di sofferenze e senso di colpa ben distribuite: non è affatto diverso o distinguibile un dolore nel dolore di tutti, dice la madre. Con Sofia il mondo invade e distrugge l’intimo, ma il vero grande altro sta nel buio della sala: il pubblico irrompe di risa e applausi in quel quasi-interno, in quel privato che si svolge sulla scena. Ora è con Daria, dove rispecchia le proprie debolezze, manie, idiosincrasie, bugie. Ora è con Sofia, dove ritrova il sentire comune, la commedia e ride di sé, di quel vuoto in cui era quasi cascato. Gli spettatori di fronte al dolore si identificano, guardano solo se stessi: sembra che in occhi e parole non possano vedere, ascoltare, da interno a interno, che possano essere solo figuranti nel dolore di un altro. Eppure in un attimo la risata si strozza in gola: in quel suono ciascuno ha visto l’altro, ne ha sentito le viscere.
Il Tempo
Federica è una bambina sveglia, ma stenta a capire quella donna così volubile. Con la pubertà impara e non s’imbroncia più: legge lo smarrimento su quella faccia da adulta che vorrebbe trattenere nel mondo. Cresce ancora e si fa più distante, più simile alla madre. La figlia segna il tempo, il passaggio, lo sviluppo e la decadenza. Nella tana, invece, si passa il tempo a purificarsi dallo scorrere, a pulire le tracce, i resti del passaggio: con la maschera antirughe si racconta come si scampa ogni giorno alla morte. In Federica Santoro sembra nascere la storia, o almeno il suo bisogno: i suoi dialoghi s’interrompono a più riprese, diventano monologo narrazione sincopata che dà senso a quel fluire, lo sottrae alla dimenticanza. Le storie parlano di sua madre, sua nonna, di quei lutti che ha subìto e non ha mai vissuto, parlano di ciò che resta, che continua a far parte di lei, di ciò che l’ha originata e che le resta sulla pelle.
Il Silenzio
Il dottore della parola non parla, il dottore della parola sorride. Quando entra, Daria, saluta ma pensa mille cose, e pensa che forse le dirà, ma la prossima volta. La psicologa saluta quando esce, e pensa a sua volta che di nuovo niente è stato detto. Scorrono insieme i pensieri che dicono, si dicono, senza proferir verbo, isolati. La scena vive di parole: sta nel suono convulso, continuo, strabordante, sovrapposto di queste due menti. Rovistano nel dizionario, come nel frigorifero, a cercare un vocabolo che riempia di piccoli sensi, che dica, che fissi in un suono, per iscritto. Quel pensare fugge l’idea che tutte quelle definizioni non dicano niente, ma è proprio nella fuga che si scoprire il nulla: le parole, il senso, il suono vengono forsennati a far sentire il silenzio. In quel vortice di detti il pubblico si perde, si distacca, fluttua e viene scaraventato, in un attimo terribile, nel baratro muto dell’insensato.
La drammaturgia di Lucia Calamaro è inesorabile ma resta leggera, ironica: non abbandona mai la singolarità di una vita, lieve o dolorosa quanto può esserlo la quotidianità, ma la spinge impalpabilmente al limite, ne sviscera quasi dolcemente i meccanismi reconditi, spaventosi. Tutta la complessità che quella scrittura contiene, i legami, le riflessioni, citazioni o chiacchiere, si perdono, lavorano sotterranei a far sentire l’abisso, il silenzio, il vuoto di desiderio. Ma L’origine del mondo è soprattutto nei gesti e nelle parole sulla scena, che, misurate, ordinarie, riescono a mantenere e accrescere tale complessità; è nelle attrici che lo attraversano, che fanno vivere una depressione particolare, privata e la aprono in un affresco infinito. Daria Deflorian, Federica Santoro e la Calamaro stessa, stanno al mondo, sul palco, in movimenti trattenuti che stentano ad allontanarsi dal corpo, o in pose plateali, espansive, o in mosse scostanti, brevi, irrequiete: vivono lo sforzo dello stare, fragile. La presenza di ciascuna regge poco, pronta a svanire, inabissarsi; i dialoghi non resistono molto, perché una parte emergere sull’altra, richiede lo sguardo. Si costruisce, così, una partitura fatta di presenze che trattengono in sé la fatica di affiorare, di parole che cambiano narratore, di assenze imposte o ritrovate.
Le attrici sono immerse in un fondo che è mondo, tempo, palco, testo; su queste basi lottano ogni volta, di replica in replica: le tradiscono, le tendono all’estremo per guardare, per far emergere anche solo un brandello di quella distanza originaria che c’è tra loro e il mondo, il tempo, il palco, il testo. Il rischio è che quella questione personale, periodicamente, torni a essere solo privata; la sensazione è che quella stessa capacità, quella stessa forza della parola, del testo, della recitazione, a volte si fermi a contemplare se stessa, che si compiaccia in citazioni, ceda a qualche personalismo o localismo di troppo: il ritratto di un interno si ammira, di tanto in tanto, dentro la cornice, dimentica, per qualche istante, la sua origine.
di Matteo Vallorani
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.