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Rectum Crocodile

L’ordito della denuncia: “Rectum Crocodile” di Marvin M’toumo

di Francesca Lupo

Questo articolo è frutto della Scuola estiva di giornalismo culturale in Romagna, organizzato da Altre Velocità, che attraversa il Festival di Santarcangelo 2024.

È arrivata ieri a Santarcangelo Festival la seconda opera di Marvin M’toumo, eclettico artista nato e cresciuto in Guadalupa, dal titolo Rectum Crocodile. Avvolti nel buio, l’unico elemento scenografico è un tappeto verde (con qualche esile piantina qua e là) che ricopre tutto il pavimento, persino quello sotto i piedi del pubblico, posizionato sul perimetro del quadrato, in prima e seconda fila. Ed è proprio con la più celebre e innata formula di creazione dal niente, il était une fois ovvero c’era una volta, pronunciata da un bambino, che una piantagione di cotone si palesa coi suoi abitanti, animali piante e uomini.

Sotto un albero si discute di colonialismo. La voce del piccolo narratore francofono evoca tutti i partecipanti a questo tetro simposio: uccelli, felini e canidi, donne e uomini, grandi alberi, ognuno con il suo linguaggio, testimonia una violenza via via sempre più cosciente e più profonda. Gli esseri viventi interpellati a turno escono da un angolo diverso del quadrato, accompagnati da musiche e illuminazioni che risaltano il loro movimento, più o meno coperto da costumi perfetti per soddisfare la fantasia di un bambino: ali composte da lunghe penne bianche o nere, body leopardati luccicanti o colmi di macchie e striature per gli animali; gonne dai mille colori e stretti corpetti forse di cartapesta (su di essi grossi seni e lunghi capezzoli/spuntoni di una natura matrigna) avvolgono invece gli esseri umani. Il ritmo delle quattro performer in scena (per tre personaggi si aggiunge anche M’toumo) parte sostenuto sin dall’inizio, ogni occasione per scuotere il torpore fisico/psichico/politico degli spettatori è colta, abbaiando o cantando o urlando suoni o parole umane piene di rabbia, di violenza, di merda nel senso più stretto del termine. Persino l’albero di cocco sotto il quale questo j’accuse di due ore ha luogo ha qualcosa da dire, denunciando tutti gli uomini appesi ai suoi rami dal diavolo europeo colonialista.

La fiaba degenera e sembra che non si possa concludere mai la lista dei soprusi che copre la Storia per intero sino ad arrivare ai giorni nostri, in cui la vita di una persona africana vale di meno rispetto a qualunque altra. Un continente ridotto a un aggettivo, una parola: nègre in francese. Una parola che le quattro performer in scena rivendicano insieme a tutti gli innumerevoli stereotipi collaterali, giocandoci imbrogliando le parole (nègre che diventa gros nez ovvero grosso naso, e poi negroni, il cocktail, in una canzoncina inquietante che accompagna una delle isteriche uscite di scena) o svilendo il proprio stesso corpo di vittima. Un’autoironia che il perimetro composto per la maggioranza da bianchi ha difficoltà a digerire: una madre che offre una tazzina a due spettatori dove bere la cioccolata calda che esce dai genitali del figlio, spremendogli la pancia di bambolotto; una donna che al centro comincia a twerkare girando su stessa, mostrando a tutti i glutei che più che danzare sembrano concedersi a una violenza perenne, sessuale che in quasi tutti i monologhi viene accennata con dovizie di particolari e scurrilità. È incredibile, o forse al contrario fisiologico, che tutto si concluda in una risata. Le performer eleganti e tutte uguali, coi loro ventagli in pendant, entrano ammiccanti e miagolanti in scena, ma questo ennesimo siparietto dura molto poco, perché subito cominciano a sghignazzare, facendo il verso al proprio verso, a una immagine che il bianco ha fatto del nero (figuriamoci della donna!), che le quattro in queste due ore hanno mangiato voracemente e vomitato sulle facce bianche del perimetro.

La stampa francofona ha definito con la formula défilé-spectacle i lavori di M’toumo, raccontando i suoi studi di moda e le sue creazioni, che hanno trovato nel luogo teatrale uno spazio d’espressione molto più libero e accogliente, come lui stesso ammette. Ed è proprio una sfilata, sia letterale che metaforica, a cui si assiste, mentre si susseguono vestiti, pelli scoperte e soprusi, che fanno tutti capo agli stessi corpi. Corpi che sussultano sul posto e in corse sfrenate e il centro da cui scaturisce il movimento sono fianchi e glutei: è sul coccige che sono poggiate le teste degli animali interpretati, invertendo così il davanti con il dietro; mostrare il culo per prendersi gioco della Storia e delle costose pelli di coccodrillo. Resta il dubbio che l’estenuante denuncia non condivida con la sfilata la sua natura maestosamente estetica, ma tristemente effimera.

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