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"Lo stato d'assedio": parlare al presente

di Altre Velocità

Sono giorni complicati per tutti. C’è chi eroicamente mette in campo le proprie competenze e tenta disperatamente di salvare vite, chi soffre in silenzio da casa, chi vede prospettarsi davanti a sé un futuro a dir poco incerto. Cambiano le nostre abitudini: la lentezza e la riflessione soppiantano la frenesia, lo stress e la mancanza di tempo a disposizione. Veniamo a contatto diretto con la paura, un sentimento che tentiamo sempre di rimuovere o allontanare, ma che stavolta ci insegue e, forse per la prima volta, dobbiamo imparare ad accettare come una normalissima parte della nostra esistenza. Si può sfruttare, ora più che mai, il prezioso tempo a disposizione per arricchire il nostro bagaglio culturale, magari leggendo qualcosa che risuoni con le vicende che stiamo attraversando. A me è successo questo, ed è stato come quando provi un piccolo sollievo perché scopri che qualcuno a te caro ha già affrontato il problema che tu stai vivendo. Lo stato d’animo della paura si ritrova pienamente in un’opera teatrale, che ho letto pochi giorni fa: è Lo stato d’assedio di Albert Camus del 1948, ovvero poco tempo dopo quella guerra che in questi giorni ci sembra di rivivere. Fu messo in scena per la prima volta al Thèâtre Marigny di Parigi il 27 ottobre 1948 dal regista Jean-Louis Barrault, con le scenografie del pittore Balthus. Lo spettacolo fu un fiasco, poiché il pubblico credeva di assistere a una trasposizione teatrale del romanzo La peste, scritto da Camus l’anno prima. La vicenda de Lo stato d’assedio, che invece è un’opera a sé stante, è ambientata a Cadice, in Andalusia. La peste inizia a mietere le prime vittime in città, il terrore del contagio alberga nei sentimenti della gente. Ognuno pensa egoisticamente a rifugiarsi da qualche parte:

DIEGO – «Non mi riconosco più. Non ho mai avuto paura di un altro uomo, ma questo è più forte di me; l’onore non mi serve a nulla e sento che sto per cedere».

La situazione comincia a diventare pesante e preoccupante. È l’ora dei provvedimenti: il governatore impone misure restrittive alla cittadinanza per evitare il contagio:

PRIMO ALCALDE – «Ordine del governatore. A partire da oggi, in segno di penitenza per la sventura comune e per evitare i rischi del contagio, ogni riunione pubblica è interdetta e tutti i divertimenti proibiti».

La prospettiva comincia a spostarsi: dall’essere un problema secondario, la peste inizia a occupare un posto fisso nei pensieri delle persone. Per questo motivo Camus crea il personaggio della Peste in Lo stato d’assedio, perché ormai è il tiranno, il padrone della vita della gente. Una forma di schiavitù che induce a pensare: l’autore ha ancora fresco il ricordo dei regimi autoritari, dunque la sua è in primis una missione politica e civilizzatrice, considerando i fatti accaduti pochi anni prima. Ma i tempi cambiano e nessuno ci vieta di pensare oggi al coronavirus come il tiranno dei nostri tempi, verso il quale siamo sottomessi.

LA PESTE – «Io regno: è un fatto, quindi è un diritto. Ma un diritto che non si discute: dovrete adattarvi. Non fatevi illusioni, del resto: io regno a modo mio, e sarebbe più esatto dire che io “funziono”. Voi siete un poco romantici, spagnoli, e mi vedreste volentieri sotto l’aspetto di un re negro o di un sontuoso insetto. Si sa: voi avete bisogno di patetico. Ebbene, no. Non ho scettro, io, e ho preso l’aspetto di un sergente. E il mio modo di tormentarvi, perché è bene che siate tormentati: avete tutto da imparare. Il vostro re ha le unghie sporche e l’uniforme stretta. Non troneggia, siede. Il suo palazzo è una caserma, il suo padiglione da caccia un tribunale. Lo stato d’assedio è proclamato».

Lo stato d’assedio porta in scena le tematiche più ricorrenti nella produzione di Albert Camus, afferenti alla sfera esistenziale dell’uomo (solitudine, paura, straniamento); ma quest’opera, che rappresenta forse lo scritto in cui l’autore si è maggiormente riconosciuto e che lui stesso definì «un tentativo di elaborare una mentalità moderna, un dramma d’amore», contiene un importante messaggio di speranza. Quest’ultimo è ampiamente valido anche nella circostanza che stiamo vivendo: parliamo dell’atteggiamento del singolo, che tutto deve fare tranne che abbassare la testa e rassegnarsi di fronte a una scalata che al momento sembra insormontabile; lottare con tutte le proprie forze e non arrendersi, impegnarsi quotidianamente e agire responsabilmente per raccogliere i “frutti” in seguito. Dall’altra parte, fondamentale per uscire da catastrofi come queste è il senso di comunità: «distanti ma uniti» è l’espressione che meglio riassume la volontà di un intero popolo di soffrire e poi uscire insieme dalla disgrazia. Secondo Camus occorre essere organizzati e forti, proprio come lo è la peste nel colpire così tanta gente. Ma dal virus noi traiamo una grande lezione, anzi più di una. Si tratta di pensieri che fino poco tempo fa indirizzavamo ostinatamente in un’unica direzione, ma che d’ora in poi, ammettendo l’errore del passato, orienteremo nella maniera giusta. Tra questi, l’idea di come il mondo è fatto, ovvero miliardi di persone sulla stessa “barca” e con il medesimo destino, senza divisioni ed eccezioni alla regola; e poi, ad esempio, il diverso valore che d’ora in avanti attribuiremo alla memoria, perché viviamo qualcosa che ci resterà sulla pelle per sempre. E non guarderemo più con una certa distanza chi ancora oggi ci racconta di quanto la seconda guerra mondiale e i totalitarismi hanno cambiato il modo di pensare della gente. Arriverà il momento in cui anche questo male passerà, e noi ci sentiremo quasi di ringraziare il virus, nonostante l’attuale sofferenza. Camus intuisce il paradosso in tutto questo, ovvero ciò che di “buono” può portare un’esperienza dolorosa come quella attuale. Lo fa mettendo in bocca al personaggio della Peste, ormai in congedo, queste parole:

LA PESTE – «Sì, me ne vado ma non gridate vittoria: sono contento di me. Anche qui abbiamo lavorato bene. Mi piace che si parli tanto di me e so che, adesso, non mi dimenticherete più. Guardatemi: guardate un’ultima volta la sola potenza del mondo. Riconoscete il vostro vero sovrano e imparate la paura. (Ride.) Prima avevate la pretesa di temere Iddio e i suoi colpi di testa. Ma il vostro Dio era anarchico e confondeva i generi. Credeva di poter essere al tempo stesso, buono e potente. Non era logico, né sincero: bisogna pur dirlo. Io ho scelto la potenza e nient’altro. Ho scelto il dominio e ora sapete che è cosa più seria dell’inferno».

Leonardo Ostuni

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