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(foto di Masiar Pasquali)
(foto di Masiar Pasquali)

Lo scioglilingua teatrale di “Bidibibodibiboo”

di Francesco Brusa

Aggirarsi per cerchi concentrici attorno a un tema, lambirlo senza mai riuscire ad afferrarlo del tutto, lasciare che infine esploda e si diffonda in ogni lato – oppure ancor meglio imploda, come un’eco sorda. L’ultimo spettacolo di Francesco Alberici, Bidibibodibiboo, potrebbe sembrare quasi un calco del titolo: uno scioglilingua scenico, una continua e insistita articolazione, riarticolazione, sottoarticolazione dello stesso discorso che spinge a perder di vista il discorso stesso. O, meglio, ci permette di focalizzarlo con maggiore precisione?

Di certo, esiste un doppio livello della rappresentazione che viene reso chiaro fin dai primi momenti. Alberici fa il suo ingresso sul palco con un altro attore, vestito come lui e pronto a replicare ogni suo gesto. Stasera sarà questo attore a interpretare il ruolo di Alberici, ci fa sapere, perché Alberici preferisce mettere in scena il proprio fratello (“Chi lo conosce meglio di me, d’altronde?”), dalla cui storia “reale” prende avvio lo spettacolo. Una storia di mobbing aziendale, pressioni psicologiche e affaticamento fisico. Una storia di lavoro, che è appunto il tema dichiarato di Bidibibodibiboo. Eppure, di cosa parliamo quando parliamo di lavoro? Nonostante lo spunto narrativo perfettamente coerente e lineare (un episodio di sfruttamento e alienazione nell’Italia contemporanea, quasi a ricalcare il piglio sociologico di Chi ha ucciso mio padre), lo sviluppo scenico presto si complica e deraglia: si aggiungono diversi livelli meta-teatrali e c’è una continua oscillazione fra il tono un po’ civico e documentale dell’apertura e momenti d’introspezione psicologica che indagano dinamiche familiari, altri attori si entrano in scena scambiandosi di ruolo e rendendo praticamente impossibile un’immedesimazione del pubblico col protagonista dello spettacolo. Di fatto, tutte le premesse della performance sono lì per essere negate dall’evoluzione drammaturgica: alla fine, interpretandolo sul palco, Alberici capisce di non conoscere quasi per nulla suo fratello, l’idea di voler denunciare dei meccanismi di mobbing e di sfruttamento si rivela ingenua, quando non fallimentare, e anzi è addirittura il fratello stesso, la vittima, a dirci che tutto sommato non si è sentito di aver subito un’ingiustizia e preferirebbe dunque che la sua storia non fosse rappresentata in un teatro (“Non tutto è lavoro”, rivendica contro l’Alberici regista, mentre gli chiede che le ambizioni artistiche non passino sopra ai sentimenti personali).

Siamo su territori simili a quelli di Tropicana (secondo spettacolo della compagnia Frigoproduzioni, nata dalla collaborazione di dalla collaborazione di Francesco Alberici, Claudia Marsicano e Daniele Turconi): l’ossessività con cui il testo torna e ritorna sui medesimi concetti impedisce ogni qualsivoglia costruzione di discorso, ma illumina lati nascosti, cerca di “bucare” la rappresentazione al prezzo di una esibita, e molto calcolata, disorganicità. L’urgenza di Bidibibodibiboo sembra essere quella di smontare tutti i possibili luoghi comuni che affiorano quando si decide di affrontare con i mezzi della finzione tematiche di natura sociale, dalla retorica finto-impegnata al “paradigma vittimario” come unica forma di racconto, dalla pretesa di elevare un singolo episodio ad analisi universale fino alla mistificante oggettività di un teatro che, nel voler descrivere lo stato di cose presenti, si crede estraneo a quello stesso stato di cose. In questo, Alberici si mostra estremamente consapevole delle contraddizioni che si agitano nel dibattito contemporaneo: l’atomizzazione della classe lavoratrice dentro una concezione sempre più performativa non solo del lavoro ma dell’esistenza tutta (ben esemplificata dalle vicende che riguardano il protagonista dello spettacolo), la parallela sovraestensione del concetto di lavoro in chiave rivendicativa ma talvolta limitante (il lavoro di cura e di relazione, esplorato attraverso il racconto delle dinamiche familiari dei personaggi, e il lavoro artistico e culturale, abbordato nel finale della performance dove si mostra anche il suo carattere magari estrattivo e insincero), la femminilizzazione del lavoro propria del neoliberismo (evocata in qualche modo dalla figura della madre, un po’ inconscio edipico un po’ mamma-azienda), l’ingiunzione di dover mettere in scena solo storie a sé prossime e che coincidano con il proprio vissuto (messa in crisi dalla parabola dell’attore Alberici, che scopre di essere ben più estraneo a suo fratello di quanto pensava).

In un tale vortice di interrogativi, che l’andamento meta-teatrale di Bidibibodibiboo rende quasi frattalico, assume un’importanza particolare la nozione di fallimento – con tutta l’ambiguità del termine, che appunto può facilmente riferirsi al lavoro, alla vita, al teatro o all’insieme di queste tre cose. “Tu vuoi rappresentare la mia vicenda come un fallimento”, imputa accorato il fratello al regista sul finale. “No! Io voglio rappresentare il fallimento formale dei tentativi di messa in scena”, risponde Alberici con una delle battute più riuscite dello spettacolo, che col suo linguaggio talmente affettato da risultare grottesco mette alla berlina se stesso e certe posture eccessivamente estetizzanti del teatro di ricerca impegnato (la scenografia e il titolo della performance sono peraltro ripresi da un’opera di Maurizio Cattelan). Eppure, l’ambiguità del fallimento non sta solo nella parola in sé e nei suoi labirinti semantici: i cerchi concentrici di Bidibibodibiboo conducono tutti a un vicolo cieco, smontano superficiali certezze e visioni rassicuranti, implodono in una incessante e catartica problematizzazione di significati e significanti. Ma, al tempo stesso, la perizia drammaturgica con cui vengono legati i diversi livelli della finzione, la fluidità espressiva con cui si passa da uno snodo all’altro dell’andamento narrativo, l’organicità complessiva che sovraintende alla disorganicità particolare sono forse il contrario di un fallimento, testimoniano anzi della volontà di servirsi dei fallimenti propri e altrui per arrivare a un successo, scenico e di riflessione.

Ennesima astuzia della finzione teatrale, che nel dirsi incapace di parlar di qualcosa si rivela poi l’unico orizzonte di senso possibile? Unica possibile definizione di lavoro: quello vecchio e amletico, lo scavo sotterraneo della talpa…

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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