Dire che gli stereotipi sono dannosi, che – per quanto ormai esista una vasta letteratura e consapevolezza anche trasversale sul tema – informano la “nostra” cultura e il nostro agire quotidiano. Dire che al di là delle generalizzazioni, della retorica di cui si nutrono i dibattiti su immigrazione integrazione conflitti, esiste poi una varietà di individui che non possono essere ridotti a categorie. Insistere sul fatto che il “sistema mediatico delle rappresentazioni” – giornalismo, tv, cinema, teatro – sia un sistema ancorato a logiche vecchie e stantie, a visioni del mondo distanti dalla realtà e che soffra dunque di un ritardo culturale e simbolico. Invitare infine a rompere i pregiudizi e ad avventurarsi verso una scoperta che parta dai singoli, o almeno “sospenda i giudizi” prima che si verifichi un “incontro vero”… Non sono tutte queste affermazioni esse stesse degli stereotipi? Fino a che punto la bontà di un messaggio può andare a discapito della forma con cui viene veicolato? A essere un filo cattivi (o “cattivisti”), verrebbe da dire che si corre il rischio di uno stridente effetto da “pubblicità progresso” per cui, appunto, contenuti assolutamente condivisibili e progressisti vengono presentati con modalità conservatrici e passatiste, che sono quelle dell’ipocrisia economica, della riduzione a profitto di ogni valore. «Basta con gli stereotipi!», scandisce decisa la cantante Emma Marrone in uno spot ideato per il marchio Lines, con un’intonazione recitativa che è però la quintessenza dello stereotipo. Almeno da punto di vista attoriale…
Gli altri di Corps Citoyen – collettivo artistico pluridisciplinare che opera fra Milano e Tunisi – è uno spettacolo che “lambisce” tutti questi rischi, senza però caderci mai dentro con entrambi i piedi. Delinea con chiarezza il proprio intento polemico, che sono appunto gli stereotipi interculturali e le retoriche sull’immigrazione, ma evita ogni tono da invettiva o lamento civile, puntando invece su una messa in scena stratificata che funga da metafora del contesto verso cui si vuole puntare il dito. Ci si muove, soprattutto, nell’ambito delle rappresentazioni cinematografiche e mass-mediatiche: il palco del Supercinema di Santarcangelo assume le sembianze di un set, mentre lo svolgimento della performance ricalca quello di un casting, magari teatrale. «Mi chiamo Rabii Brahim», esordisce l’attore seduto su una sedia mentre guarda verso il pubblico. Una voce fuori campo lo incalza, ponendo domande. «Sono tunisino», «Come sono arrivato in Italia? Ho preso un aereo», «No, non ho faccio nulla di illegale per vivere, faccio l’attore», risponde lui in maniera sempre accondiscendente ma dissimulando una punta crescente di sconcerto. Le questioni sollevate dell’estemporanea intervista ricalcano infatti i pregiudizi medi che potrebbe avere un cittadino/a italiano/a nei confronti di una persona proveniente dall’area maghrebina: quando la voce fuori campo chiede conto della “storia” di Brahim, si aspetta un racconto di migrazione forzata, soprusi e difficoltà (come è quella, purtroppo, di tanti e tanti che attraversano il Mediterraneo). La risposta invece più lineare e cristallina dell’attore («Mi sono diplomato in Teatro e questo è il mio lavoro») non la interessa, non “vende”, non “fa spettacolo”.
Corps Citoyen ci chiede di confrontarci su un terreno forse non così consueto, quando vengono tirate in ballo problematiche legate alle migrazioni, alla diversità, ai conflitti interculturali: una dimensione normale (ma non normata?), una condizione di non-eccezionalità in cui le differenze dovrebbero sorgere dalle interazioni sociali piuttosto che presupporle. Una condizione in cui, appunto, l’alterità in fin dei conti smussata, invece che radicalmente esplicitata da biografie incommensurabili. Nel suo presentare una carrellata di accenni di storie, scampoli di racconto individuale perfettamente intellegibili (a un certo punto, su uno schermo montato sopra al palco, i diversi membri della compagnia rendono conto della loro formazione teatrale), Gli altri prova, intelligentemente, a sottrarre dalla messa in scena l’elemento drammatico del vissuto, sui cui si impernia invece tanto teatro civile che delle succitate tematiche fa argomento di discorso. In questo senso, produce a tutta prima un benefico spaesamento: non siamo più dentro al classico meccanismo dell’ascolto empatico, di una com-partecipazione che si nutre però della disparità di status e condizioni di vita, ma è come se il grado di adesione del pubblico allo spettacolo si misurasse su quanto ciascuno spettatore riuscisse o meno a riconoscersi in un’ottica vagamente “progressista”. A essere sotto accusa, cioè, sembra essere più la falsa coscienza di quella «borghesia acculturata di sinistra» che – per come scriveva Lorenzo Donati su Doppiozero a proposito di Milo Rau – è parte fondante della «intelaiatura di quasi tutto il teatro in cui crediamo».
Eppure, l’effetto finale rischia di essere ben meno dirompente delle sue premesse. A un certo punto dello spettacolo, la videocamera presente sul palco sterza sul pubblico, inquadrando in primo piano singole persone la cui immagine viene proiettata sullo schermo. Complici le mascherine indossate a protezione contro la pandemia di Covid-19, che non mostrano le labbra, voci fuori campo si sovrappongono ai volti dando l’effetto che siano proprio gli spettatori a parlare. Rivolgono ancora domande a Brahim, stavolta con toni da talk show: «Tu sei sposato? Quante mogli hai? Non credi che si tratti di un sopruso da parte dei maschi della vostra religione avere così tante mogli?», «Non ti sembra eccessivo l’odio da parte dei fondamentalisti nei nostri confronti?», ecc., mentre l’attore si schernisce, dicendo che lui ha una sola moglie, che sì, certo è d’accordo che l’odio sia eccessivo e via dicendo… Ma non siamo, in effetti, già tutti d’accordo su questo? Chi, o quale contesto, si vuole andare davvero a pungolare con lo spettacolo? È vero: come accennavamo in precedenza, la costruzione della messa in scena indica in maniera chiara che l’oggetto polemico de Gli altri è l’universo mass-mediatico e televisivo italiano (in una certa misura, anche europeo?), il “tono metallico standard” dei “discorsi da bar”… Ma una caratterizzazione così smaccata dei propri intenti non rappresenta in fin dei conti un’ulteriore stereotipizzazione, benché rivolta ai propri “avversari”?
Perché allora viene da chiedersi chi siano gli “altri” indicati dal titolo. Sono le soggettività invisibili che non sappiamo riconoscere nel nostro quotidiano? Sono un gruppuscolo di produttori, registi e sceneggiatori che tengono le fila dell’industria cinematografica e/o teatrale? Sono quella “pancia del paese” xenofoba e conservatrice che forse poco frequenta i teatri ma con cui i teatranti forse di rado decidono di sporcarsi le mani? Corps Citoyen pare dirci – con accento vagamente sartriano – che, “stringi stringi”, gli altri siamo noi. Ma non è questa la condizione basilare per ogni accadimento scenico? Non è – in un presente fatto da scomposizione politica e disorientamento identitario – davvero troppo poco?
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.