Nel giorno della morte di Tomi Ungerer può capitare anche di incontrare una donna che mette al mondo uova d’oro. Del resto tutte le creature immaginate dall’illustratore francese, una popolazione fatta di signorotti dell’alta borghesia trasformati in mostruosi animali e ragazze-squillo alle prese con tecniche di bondage, rispondono a un unico imperativo: i bambini non hanno bisogno di storie per la loro età ma di storie raccontate bene. Affinché il lettore possa credere a quei personaggi tanto orripilanti, Ungerer è consapevole di dover esaurire, consumare i suoi soggetti e iniettare nel racconto turbamento e aggressività. Giovanna Zoboli ha scritto, in un articolo su Doppiozero di qualche anno fa, del distacco graduale della nostra società da un intero bagaglio di favole della tradizione considerate troppo paurose e immorali (https://www.doppiozero.com/rubriche/1543/201706/limportanza-di-perdersi-nel-bosco). Perché non dare più ascolto – si chiede l’autrice – a tutte quelle finzioni letterarie unte di ferocia che popolano i meccanismi del fiabesco fondamentali per costruire il nostro immaginario? Gianni Farina e Consuelo Battiston – fondatori insieme a Alessandro Miele della compagnia teatrale Menoventi – nel loro ultimo spettacolo Docile sembrano anch’essi decisi ad affermare la necessità di perdersi nel bosco del fantastico, dando vita a una favola moderna dai toni cupi e lividi che scava tra tutte quelle componenti sottese al perturbante e all’inconscio collettivo.
Il lavoro di Menoventi – presentato al Teatro Biagi D’Antona di Castel Maggiore all’interno della programmazione di Agorà – diventa infatti una sorta di tragico racconto universale dal sapore familiare; tanto che se si presterà attenzione ai due interpreti in scena, Andrea Argentieri e la stessa Battiston, ci si renderà conto che, per l’intera durata dello spettacolo, questi fanno tacitamente circolare la favola de La gallina dalle uova d’oro di Esopo, esemplare parabola sull’insaziabilità umana. Non che il testo di Esopo venga mai presentato in modo esplicito al pubblico – se non quando Argentieri lo riporta a metà dello spettacolo in lingua greca – ma di tanto in tanto appaiono forti allusioni simboliche. Sul palco e in platea si muove un tale di nome Guglielmo (Argentieri): veste i panni del coordinatore di un corso di empowerment e quelli di un ginecologo. Ha il tono calmo e sicuro di sé di chi sa conquistare la fiducia delle persone smarrite, allo stesso tempo dolce e familiare ma anche retorico, “plastificato”, con una fredda punta di professionalità. Sul palco e in platea si muove una gallina: è una giovane ragazza di nome Linda (Battiston) che tiene le spalle curve e lo sguardo in certi attimi perso nel vuoto. Il suo corpo porta i segni di una vita trascinata con spossatezza, remissività e forse un pizzico di ignoranza – le note di regia definiscono la sua esistenza “bovina”. Linda, che ha un posto a sedere in platea, risulta iscritta al corso e a lei verrà consegnato, come a tutti gli altri presenti, un foglio sui cui scrivere una parola, corrispondente al traguardo finale che la sua personalità dovrà riconquistare. Bontà, serenità, pazienza: una sfilza di propositi insulsi e ovvi che il mental-coach esorta a scrivere e a dispiegare nelle nostre menti. Quell’imbonitore e il suo microfono gelato e poi, ancora, i fogli sui quali scrivere, l’esistenza insulsa di Linda, finiscono per ammaliare il pubblico, trascinandolo in uno strano gioco di botta e risposta tra forze opposte: la fragile incertezza del presente e il sopruso imbellettato delle parole.
E poi con un colpo repentino e con il buio in platea, gli spettatori vengono catapultati sul palco per sondare i toni malinconici del racconto orale di Linda. Questa ci svela la sua infanzia e gli oggetti del suo tormento, il lavoro precario, una salute minata e gli affetti divenuti amabili miraggi con gli accenti tragicomici nelle telefonate con sua madre o durante il lavoro in una sala bingo. Adesso gli spettatori viaggiano sulle montagne russe: una serie di dentro-fuori dalla platea alla scena sviluppa, come un nastro, la successione degli eventi. Forse l’alternanza continua di registri linguistici differenti riconducibili al drammatico e al comico, all’alto e al basso, e i ripetuti colloqui in platea faccia a faccia al pubblico finiscono per rendere quelle due figure fragili simulacri, poco indagati. Comprendiamo che quei due fantocci abitano un universo fantastico, quasi distopico e non troppo distante dal nostro. Una scena si tinge di arancione pallido e cianotico: Linda, adesso, ha partorito, con l’aiuto del ginecologo Argentieri, un uovo d’oro e lo tiene in mano perché sembra un ricco montepremi. L’infertilità ha attaccato il genere umano o quel mondo, così vicino al nostro, è abitato da sole galline, da soli animali? Linda è la rappresentante, eletta da forze sconosciute, di una nuova disumanità? Di certo l’intera vicenda assume il fascino di certe narrazioni distopiche, riprese a mani basse dalla letteratura e dal grande e piccolo schermo. Basta citare due esempi: il romanzo di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella o il film del regista messicano Alfonso Cuarón I figli degli uomini. Sotto il cielo di Docile abitano spettatori paganti seduti in platea che ricevono somme in denaro dopo una vincita al bingo, medici assetati e smaniosi e cosiddette “verità ovvie”, vale a dire scritte al neon penzolanti sul palco. Cosa significano quelle didascalie? Chi le ha pronunciate? Poche parole illuminate, che a loro volta si rifanno ai Truisms dell’artista americana Jenny Holzer – come indicato dalle note di regia – che riportano frasi minime e un linguaggio freddo, anonimo e fortemente esplicativo. Di certo ricalcano l’enorme quantità di manifesti pubblicitari, led, nastri luminosi e tabelloni che invadono le nostre strade. Sotto il cielo di Docile abita l’essere umano.
Damiano Pellegrino
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