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(foto di Emanuela Giusto)
(foto di Emanuela Giusto)

A ritroso nel tempo e nella provincia. Licia Lanera racconta “Altri libertini”

di Petra Cosentino Spadoni

Licia Lanera porta in scena un adattamento del testo di Pier Vittorio Tondelli insieme agli attori Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani, attraverso tre racconti del “romanzo a episodi” del 1980: Viaggio, Altri libertini, Autobahn. Lo spettacolo prende avvio da un affondo sul contesto storico sociale italiano del 1980, intrecciando le proprie biografie alle parole dei personaggi tondelliani, alla ricerca delle radici della propria generazione “che si perpetua sempre uguale da almeno quarant’anni”. Altri Libertini ha debuttato lo scorso ottobre all’interno della programmazione di Romaeuropa Festival e nel mese di dicembre prosegue il suo viaggio in Emilia, tra Correggio e Bologna. In occasione delle repliche emiliane, Licia Lanera ci conduce dentro la costellazione di storie che accompagnano la realizzazione dello spettacolo.

Pensando al tuo percorso artistico, come collochi la scelta di mettere in scena Altri libertini? La vedi in continuità o in discontinuità con quanto hai fatto sinora?

Credo che il mio percorso sia stato abbastanza naturale. Il mio lavoro ha subito un processo evolutivo naturale da un’età giovanile, e da un’esuberanza anche registica, in favore di una lucidità sia nella gestione delle cose, sia nella pratica e nel mettere a fuoco quello che era il mio teatro – che poi non si è rivelato molto diverso da quello che era il teatro di Fibre Parallele anni fa. Prima il mio lavoro si svolgeva in duo con Riccardo Spagnuolo, sulla creazione di testi inediti, attraverso un lavoro di scambio continuo in cui la stesura del testo lasciava sempre spazio anche alla mia parte autoriale. La compagnia, oggi Compagnia Licia Lanera, nasce nel 2006, quasi venti anni fa. Ho iniziato a capire di potermi rivolgere a qualche testo, qualche autore, per poter ritrovare un mio pensiero e su cui poter fare un’operazione in qualche modo anche drammaturgica – non di stravolgimento, ma in qualche modo di accomodamento – e poi registica.

Ultimamente mi interessa molto lavorare su testi non teatrali, forse perché mi sto allontanando dal concetto di rappresentazione e lavorare con dei testi non pensati per la messa in scena mi aiuta in questo senso. In particolare i romanzi, che mischiano la terza persona a dialoghi in forma diretta, sono ottime basi per trovare quello scollamento che sto cercando anche dal punto di vista registico, e un po’ anche perché mi interessano di più in questo momento della mia vita. Ecco che partire da questo confronto con il testo ho iniziato a occuparmi anche del lavoro sulla drammaturgia. E questa autarchia, nata come una necessità, è diventata un modus operandi, perché il mio lavoro comincia proprio dalla scelta del testo e dalla selezione di uno sguardo piuttosto che un altro, fino alla scelta dell’attore e alla forma dello spettacolo. E le cose sono totalmente indissolubili. Ma guardandomi indietro mi rendo conto che il mio lavoro è sempre stato così. Solo che adesso ha una forma più chiara e soprattutto si è rivolto a dei testi già esistenti, in particolare a dei testi non teatrali.

Perché lavorare su Pier Vittorio Tondelli e su Altri libertini, nello specifico?

Tondelli è un autore che io ho conosciuto tardi. Lo avevo intercettato quando ero più giovane, ma poi lo ho definitivamente reincontrato leggendo la raccolta di saggi, recensioni, articoli Un weekend postmoderno. Per me è stata una folgorazione, innanzitutto linguistica: una lingua così viva, così divertente, questo mix di alto e basso. Nel percorso di ricerca da cui provenivo, portato avanti insieme ad Antonio Tarantino, si trova un miscela simile, un mix esplosivo di alto e basso e di ricerca linguistica sulla lingua parlata – termini dialettali, parole scritte volutamente sbagliate. La lingua mi affascina molto, fin dall’università. E leggendo Un weekend postmoderno, la scrittura di Tondelli mi faceva molto ridere, mi piaceva leggere ad alta voce, e mi divertiva questo mondo di provincia, anche se è una provincia lontanissima dalla mia – ma le province poi si assomigliano tutte – questo mondo dei club, dell’arte, delle discoteche, dei bar e degli smandrappati.

Dopodiché ho letto Altri Libertini, e mi si è aperto un mondo: la questione della lingua, di unire il riso al pianto – secondo me necessari in uno spettacolo, che dovrebbe essere in un’ora la sintesi dell’esistenza tutta – e poi mi piaceva l’idea di trovarmi con dei giovani debosciati con cui trovavo una forte corrispondenza, benché io non sia giovane e sia debosciata per fortuna soltanto alcuni giorni all’anno. In generale, negli ultimi tempi mi sto occupando di autori italiani, per una questione di linguistica, per l’assenza di filtro e traduzione della lingua, ma anche perché quando pensi che il tuo mondo, quello che ti sta attorno, fa schifo, provi a guardare indietro e in qualche modo cerchi quel piccolo paese che tutti riconoscono come un paese legato alla cultura. Ho cercato di ritrovare qualcosa di diverso dalla produzione culturale contemporanea italiana, che, per quanto io non sia un’esterofila, mi sembra abbastanza avvilente, dal cinema in giù.

E così ho detto “facciamolo”.

(foto di Emanuela Giusto)

Come sono avvenute le scelte per la selezione dei racconti e per la trasposizione in scena, in cui ai personaggi tondelliani si intrecciano le storie degli attori che sono legate temporalmente attraverso gli anni ’80?

La prima cosa che mi è venuta in mente è stata quella di scegliere i tre protagonisti: Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani, per questioni attoriali, caratteriali, per cose che abbiamo condiviso anche come esseri umani insieme, e anche per una loro specifica attitudine all’esistenza. Sono anche loro over40, dediti alla vita notturna, non sposati, senza figli, caratteristiche che in qualche modo determinano la categoria di chi è rimasto incastrato nell’eterna giovinezza. Poi ho scelto i tre testi. Ero indecisa su alcuni, poi li ho scelti definitivamente anche in base a loro, alle loro corde. Sono tre attori molto diversi tra loro, ma in perfetto accordo.

Per quanto riguarda il lavoro drammaturgico, Altri Libertini è stato molto faticoso, non solo nella scelta dei tre racconti, ma anche nei successivi tagli, e poi la cosa più complicata sicuramente è stata quella di incastrarli in un unico flusso, perché i tre racconti non sono staccati ma sono incastrati per cercare di creare un ritmo che potesse seguire quello che poi è il ritmo dello spettacolo, e anche un rimando di significati, incastrato ulteriormente alle nostre parti biografiche, che appunto si intersecano alla drammaturgia di Tondelli.

Dopodiché ho chiesto i diritti, ignorandone tutta la storia e ritrovandomi dunque davanti a questa questione, che sembrava avrebbe portato ad abbandonare l’idea dello spettacolo. Dopo sei mesi, una mail da parte di Giulio Tondelli mi informa che avrei ricevuto i diritti per lo spettacolo; solo dopo ho capito che non erano mai stati concessi a nessuno prima di noi – ancora scherziamo su questa cosa. E allora ho iniziato a lavorare.

Come ci si sente nel presentare questo spettacolo a Correggio, quindi proprio in terra tondelliana (Altri libertini è andato in scena al teatro Asioli il 13 dicembre)?

È una grande emozione, perché qui ci sono persone che lo hanno conosciuto, frequentato, ci sono persone che si occupano del suo lavoro letterario e si aspettano che venga investito da una maggiore “apertura” pubblica – mi riferisco alle persone che lavorano al Centro di documentazione, che mi hanno aiutato anche nella ricerca di materiali inediti, non pubblicati, di cui io mi sono servita sia per la parte drammaturgica, sia per raccogliere degli umori che in qualche modo sono rientrati nello spettacolo. La data era sold out già da un mese, quindi è una grande emozione. E tutta la famiglia ha già visto lo spettacolo e tornerà a vederlo con grande orgoglio e grande gioia, e questo è molto importante, perché è un momento di riconciliazione con una famiglia che ha molto sofferto questa perdita. Venendo a Correggio mi si sono resi chiari diversi elementi che riguardano cosa vuol dire morire di AIDS nel ’91 in un paesino, un dolore che si somma ad altro dolore, e quindi anche un bisogno di tenere per sé alcune cose – giuste o sbagliate che possano essere. Siamo umani, e fare teatro vuol dire anche cercare di capire questi altri aspetti. E per me sono stati fondamentali, perché è venuto fuori un rapporto di liberazione, rispetto ai nostri genitori, alle nostre madri: il fatto di non poter assomigliare alle nostre madri – che riguarda Tondelli, ma riguarda anche me, gli attori. Nello spettacolo compaiono i nomi delle nostre madri proiettati sullo schermo, e anche il nome della madre di Tondelli. Non lo so, è emozionante

(foto di Emanuela Giusto)

Prima parlavi di una ricerca nel passato panorama storico culturale italiano, da cui la scelta di affrontare in particolare questo testo, alla ricerca delle radici di una generazione “che si ripete sempre uguale da almeno quarant’anni”. Trovi che si possano individuare delle corrispondenze tra il 1980 e il 2024? In che modo questo testo può parlare al pubblico di oggi?

Lo spettacolo prende avvio da uno spaccato del 1980. Ho dovuto fare un’operazione archeologica tracciando su una bacheca tutti gli eventi che sono accaduti in Italia nel 1980, di cui ho poi fatto una selezione: da Toto Cutugno al Festival di Sanremo, la strage della stazione di Bologna, il terremoto dell’Irpinia. Il mio ricordo degli anni ’80 è un ricordo di bambina, quindi è stata un’operazione antistorica anche per me; anche io guardo agli anni ’80 come qualcosa di abbastanza lontano, perché per me gli anni della giovinezza, di cui inizio a ricordare delle cose più chiare, sono gli anni ’90. Eppure, alcuni licei hanno portato le proprie classi a vedere lo spettacolo e una ragazza, nonostante l’assenza di coordinate, a un certo punto mi ha detto che alla fine l’essere umano è sempre lo stesso. E ho trovato questo: oltre a una nostalgia legata all’aggregazione che oggi è molto rara, che alcuni tumulti emotivi sono molto simili all’oggi, con la differenza che oggi noi siamo veramente fuori tempo massimo. Nel testo di Tondelli si parla di ventenni, ma guardando delle persone adulte che recitano quella cosa mi sembra plausibile, perché non è così assurdo vedere un quarantenne che vive come un debosciato, uscendo tutte le sere, drogandosi. E quindi, spostandosi ulteriormente, questo crea una discrasia, uno strano spostamento temporale; e anche quella è una presa di coscienza per quello che mi riguarda, di cui parlo all’interno dello spettacolo. Poi, l’operazione è anche un po’ nostalgica, di una nostalgia inconsapevole, perché in realtà la barbarie è sempre esistita se guardiamo indietro nel tempo.

Quali possibilità si aprono quando il teatro incontra la letteratura? Lo chiedo anche a partire dal precedente confronto con la letteratura russa, così come dall’attuale interesse verso testi non teatrali…

Ci sono due aspetti. Uno interno, proprio lavorativo, nel senso che personalmente questo connubio mi dà la possibilità di sviluppare delle questioni registiche all’ennesima potenza, anche se queste nel mio caso si riducono a un’asciuttezza totale dello strumento dal punto di vista rappresentativo. Ma di fronte a una pagina narrativa si può veramente entrare con l’immaginazione, pur mantenendo il testo. E per quanto riguarda gli attori ti riporto un un punto di Danilo Giuva, per cui questo scollamento della terza persona e del racconto porta a cadere ancora di più nella dimensione emotiva delle battute, perché costringono a stare imprigionato in quel testo a tal punto da caderci dentro e da vivere un’emotività ancora più straziante di quando si interpreta un personaggio, perché a quel punto non si può mettere uno schermo e allontanare il personaggio da sé, costruendo una figura che è altro da sé; di fronte a una pagina narrativa puoi attingere solo da te stesso, ed è dunque un gioco anche pericoloso. Quindi secondo me si potenziano le possibilità dell’attore e anche del regista.

Un ulteriore aspetto è esterno, quello dell’apertura al pubblico. Il nome letterario può avvicinare un pubblico che solitamente non frequenta i teatri ma che è amante della letteratura. E viceversa, la grande magia sta nel fatto che molti spettatori sono andati a recuperare Altri Libertini già prima della recita, per un processo di curiosità, per prepararsi allo spettacolo – cosa che non accade spesso per un testo teatrale, per chi non è abituato e può essere scoraggiato. Per cui si arriva a una moltiplicazione del pubblico che compie anche un po’ il senso del teatro, cioè il suo essere uno strumento di conoscenza, un veicolo ulteriore di conoscenza – non solo dell’essere umano, in primis di se stessi, ma anche di quello che riguarda il rapporto con l’altro, la società, la politica intesa come polis tutta, dalla politica al rapporto con il diverso.

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