Io e X ci siamo incontrati una sera a teatro. Lui era sul palco, a me è successa una cosa che non mi era mai capitata prima. Ho trovato rappresentato un altro da me, un oggetto incomprensibile, una barriera che mi impediva la visione. Sono tornata a casa turbata e furiosa. Ho scritto e riscritto e riscritto in merito una recensione ma non andava mai bene, mi sfuggiva continuamente il senso dell’operazione e, soprattutto, di quello che avevo visto. Stavo facendo indirettamente quello che proverò a fare oggi con un po’ di consapevolezza in più: raccontare me stessa, invece che un oggetto altro, fosse questo X, o il suo lavoro, o la mia visione del suo lavoro. Così arriviamo al primo motivo per cui mi sono innamorata: X, inconsapevolmente, ha reso ovvio che non l’avrei mai raggiunto se avessi continuato a inseguire me stessa. Mi ha insegnato insomma la lezione di Silvio d’Amico che al laboratorio non avevo interiorizzato: «anche lui (il critico), come tutti gli interpreti, deve partire da un atto di umiltà, d’almeno iniziale dedizione, di rinuncia (fin dove è possibile) all’individualità sua; di volontario annegamento nell’opera intrapresa a studiare».
A quel punto, dalla banale scoperta che nella critica non devo cercare me stessa, il difficile compito del confronto con l’altro. Un annegamento faticoso e nel mio caso non volontario, perché il turbamento che l’operazione provocava in me, oltre che inedito, era faticosissimo a livello di ego. Scoprire a vent’anni di non essersi mai interrogati su chi vediamo in scena e cosa ci racconta non è che faccia proprio bene all’autostima. Ecco che di nuovo capovolgevo l’operazione verso l’interno, il noto, il personale, e lo spirito contrariato di X si manifestava attraverso le bocciature dei conduttori del laboratorio che mi ricordavano che dovevo superare l’ostacolo. Sostiene Fabio Bonifacci che una storia è buona quando il personaggio viene spinto fino al suo punto di massimo pericolo, quell’incrocio estremo tra i suoi desideri e le sue paure in cui non può far altro che cambiare. Questo è il secondo motivo per cui mi sono innamorata: perché è vero che ci rifiutiamo di crescere finché non siamo costretti e che per farlo servono gli altri. E, siccome questa è un’ottima storia, io mi sono trovata al crocevia assolutamente da manuale tra il desiderio di definizione di me stessa e un rifiuto dell’alterità da risolvere.
È ovvio a questo punto che X, a forza di evocarlo a sproposito, si era trasformato in una proiezione assolutamente arbitraria, che non conservava più neanche la forma di una persona in carne e ossa, insomma un autore smaterializzato ma insieme per me dotato di un’immaginaria personalità, fisionomia, attitudine che di nuovo parlavano di quello che mi interessava vedere, e non dell’altro che stavo cercando. Serviva allora ricominciare l’indagine da capo, ritrovare in X una voce e una poetica personali che rimanessero impermeabili al mio desiderio di autorappresentazione. Certo però che con una pandemia globale in corso non è facile, quindi scusami, X, se non ci sono ancora riuscita. Ci tengo però a dire che sono passati ormai più di tre mesi e io non mi sono arresa nella speranza di incontrarti ancora, magari in un teatro pieno di gente, e stavolta ascoltarti per davvero, mettermi in discussione, rischiare di più. Dunque il terzo motivo per cui ti amo, secondo me anche il più bello: perché non ti conosco. Perché non ti chiami X, non hai niente a che vedere con me, dici un sacco di cose che non capisco e che voglio contraddire e che sono belle, sacrosante, giuste perché qui a casa mia, io, da sola, non le posso costruire, espressione di un altro che va ascoltato ma che per ascoltarlo bisogna almeno poterlo incontrare, e poi magari sbatterci anche la testa addosso, fino a quando non ti costringe a metterti in discussione. Insomma, X, grazie per farmi venire voglia di migliorare, e non vedo l’ora di scoprire il tuo vero nome.
Elena Magnani
Disegno di Mariachiara Di Giorgio
L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.