Ogni volta che ci si trova con Antonia Baehr è come incontrare un amico di lunga data. Magari sono passati anni, eppure sembrano giorni. Non c’è bisogno di raccontarsi nulla. Le parole non servono quando dell’altro sai già quello che devi sapere, quando dell’altro conosci la misura fisica, la mimica, i suoni.
Antonia è un’ottima osservatrice. Forse la migliore. Quando entra in scena con quella sua grazia bonaria, il suo sguardo ubiquo riesce a creare una complicità singolare con ogni spettatore. Un giorno mi disse che per lei il teatro è uno “straordinario laboratorio di indagine” dove poter comunicare senza parole.
Di Antonia si sa poco o nulla. Lei stessa alimenta l’aura di ambiguità che la circonda dividendosi in numerosi alter-ego. Antonia non ama parlare della sua vita privata, perché le definizioni di genere, come le parole, non servono quando dell’altro sai già tutto quello che devi sapere.
L’unico modo per conoscere è osservare, con tutti i sensi. Questo vale per tutti i viventi. Poi ci sono persone speciali, che non solo osservano, ma annotano in minuziose partiture e rieseguono dando all’osservato un nuovo senso. C’è chi li chiama artisti.
Antonia ha osservato a lungo sua madre Bettina von Arnim ed il suo cane Tocki nella loro casa e adesso è qui per ri-eseguire cosa ha visto, per raccontarci come si fa a guardare, a “sentire” l’altro senza bisogno di comunicare verbalmente, perché le parole non servono quando dell’altro sai già tutto quello che devi sapere.
My dog is my piano è un ritratto poetico-sonoro, ma è anche un pretesto per l’artista per spiegarci come fa a fare quello che fa osservandola mentre lo fa. Lo spettacolo, a metà strada tra la conferenza etnologica e l’esecuzione di una partitura vocale, è diviso in tre parti.
Inizialmente, con due giradischi da dj, Antonia ci fa asoltare le affinità tra i rumori di Tocki e Bettina registrati mentre compiono azioni comuni, da prima singolarmente, poi alternati e mixati. Nonostante i due non parlino la stessa lingua e non appartengano alla stessa specie, convivendo insieme hanno lentamente iniziato ad assomigliarsi e a tarare i propri bioritmi sull’altro.
Antonia non ha segreti per gli amici. Con l’ausilio di una lavagna luminosa ci fa entrare nella casa di Bettina e Tocki per raccontarci le partiture abortite, quelle che non rieseguirà. Bettina e Tocki che scendono sulla scale. I loro passi filtrati dal cronofotografo di Marey. Prima di Tocki, nella grande e antica casa di Bettina hanno abitato altri cani e i segni di convivenza umana e canina diventano coreografie di graffi, di palloni bucati, di intrecci di peli e capelli. Bettina chiede ad Antonia se le serve osservare ancora altre “prove del loro rapporto”, ma Antonia è pronta, ha osservato abbastanza e ora sa tutto quello che deve sapere.
La lunga convivenza tra Tocki e Bettina li ha resi un tutt’uno simbiotico. I due, come amici di lunga data, hanno sviluppato un linguaggio unico, un “patois umanese–peloso” fatto di mimica, gesti, ma soprattutto di suoni.
Antonia li ha annotati e rielaborati. La partitura è pronta. Ora la scena si annoda tutta su di lei e sulla sua vocalità eccezionale. Antonia ri-suona Tocki e Bettina in un crescendo che non può non ricordare il finale del suo più famoso Ridere/Laugh, ma che si chiude mostrando l’intento processuale della performance, il patois trasformato in phoné si deforma in una parola: merci.
Le parole non servono quando dell’altro sai già tutto quello che devi sapere, ma quella parola, quel grazie, da sempre vero sipario di ogni spettacolo, qui più che mai ci ricorda che nello “straordinario laboratorio di indagine” che è il teatro si instaura una relazione simbiotica, dove non è solo il pubblico a pagare il debito dello sguardo, ma c’è un’osservazione reciproca, un segreto scambio di intimità tra amici di lunga data.
di Jennifer Malvezzi
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.