Quando la voce fuori campo ci dice di applaudire, stiamo al gioco, battiamo le mani e ci lasciamo guidare anche noi dalle sue istruzioni. Una voce metallica, robotica – che appare e scompare di tanto in tanto nello spettacolo Human in the Loop di Nicole Seiler, e che altro non fa che leggere le indicazioni di coreografia “scritte” da un’intelligenza artificiale per i due performer Clara Delorme e Gabriel Obergfell. “Stare al gioco” è, in effetti, la cifra che pervade un po’ tutta la proposta scenica presentata alla Biennale di Venezia dalla coreografa svizzera. Come potrebbe essere trattato altrimenti l’impiego sul palco dei cosiddetti LLM-Large Language Models, innovazione tecnologica letteralmente esplosa come tema del dibattito pubblico negli ultimi due anni, con una polarizzazione fra entusiasmo talvolta messianico e uno scetticismo spesso ai limiti del collerico? Come una sperimentazione avanguardistica? Come uno strumento di facilitazione del lavoro? Oppure come uno “specchio” di riflessione sui confini dell’umano nell’ambito performativo?
La realtà è che, almeno in Human in the Loop (e, forse, a questo stadio di sviluppo della tecnologia), la presenza dell’intelligenza artificiale in scena non può che essere svolta se non in senso parodistico. Clara Delorme e Gabriel Obergfell si lasciano infatti guidare da una partitura composta in maniera automatizzata, benché revisionata dalla coreografa Nicole Seiler, e che ascoltano per la prima volta durante le diverse repliche della performance. Vediamo così lo scarto, il periodo di latenza, fra la trasmissione di indicazioni di movimento e l’interpretazione corporea che ne danno i danzatori – vediamo anche, in un certo senso, la reazione “non recitativa” dei due a quelle indicazione che suonano più bizzarre, o inaspettate. Di fatto, è come vedere una eterodirezione attoriale “a carte scoperte”. Senonché, affidare la coreografia a un’intelligenza artificiale (la quale, com’è noto, costruisce le proprie catene significanti analizzando una mole di dati preesistenti e poi simulando il linguaggio umano, individuando cioè delle ricorrenze statistiche nella costruzione delle frasi) porta a dei risultati di comicità involontaria, a degli sbalzi di grammatica coreografica e a salti logici. Il tutto, insomma, appare meccanico e legnoso (e come tale ce lo vuole mostrare Human in the Loop): i performer camminano sulle direttrici dello spazio, viene chiesto loro di agitare le braccia in maniera un po’ inconsulta e scomposta, viene chiesto ripetutamente di guardare il pubblico e di ridere sorridere disperarsi poi ancora ridere, in un avvicendarsi di figure e di gesti (per usare un termine spesso associato ai LLM) in tutto e per tutto stocastico.
Così, in qualche modo, noi ridiamo di come l’intelligenza artificiale sembra interpretare il nostro senso estetico e motorio, o comunque delle tinte surreali che assume giocoforza lo spettacolo (un gioco, appunto, forzato dal o sul linguaggio-macchina). Un inciso, a questo punto: com’è detto, il dibattito sul tema è aperto ed estremamente composito sui vari livelli, da quello economico-politico a quello filosofico, da quello giornalistico all’ambito più ristretto delle regolamentazione legislative e del diritto d’autore. Si discute, anche, di come e quanto la tecnologia dei LLM sia a tutti gli effetti un linguaggio a sé stante, addirittura un vero e proprio stile che favorisce – almeno nella congiuntura attuale, in cui i software che sfruttano questa tecnologia in senso artistico e i relativi database sono perlopiù progettati da specifiche aziende con specifici core business – l’emergere di determinate estetiche e immaginari, a discapito magari di un’inventiva più libera e innovativa (per restare nel contesto italiano, per esempio, si vedano le tesi contrapposte di Lorenzo Ceccotti – che appunto rinviene nella modalità di funzionamento dell’intelligenza artificiale anche una prevalenza di natura estetica decisa “dall’alto” – o di Francesco D’Isa – che in molti dei suoi scritti considera sostanzialmente questa nuova tecnologia al pari di uno strumento, che dunque non influenza se non minimamente il risultato finale). Su questo, probabilmente, diranno solo il tempo e le evoluzioni che si daranno da qui in avanti. Ciò che però ogni tanto lascia perplessi (almeno a detta di chi scrive) e su cui forse varrebbe la pena interrogarsi un filo di più è se e in che misura le modalità di diffusione di opere (immagini, soprattutto) generate da e con l’intelligenza artificiale, il flusso all’apparenza sempre più crescente via social media e non solo di un certo tipo di opere ed estetiche, stiano modificando sottilmente il nostro approccio all’arte e allo sguardo critico, dal momento che non è così difficile rinvenire in tali modalità una parziale eterodirezione e una parziale resa ad alcune delle tendenze dominanti del presente, pure sociali: sceneggiature e storielle pret à porter in cui si mescolano personaggi ed elementi paradossali, Trump in manette, Trump e Biden che ballano, Putin e Kim Jong-un che limonano, il Papa col piumino Moncler oppure messo in pose surreali, Mazinga e altri personaggi di fumetti e cartoni messi in luoghi reali, meme che acquisiscono tridimensionalità… insomma, un’insistita e onnipervasiva gamification della vita e del lavoro, degli spazi reali e virtuali di socializzazione, una sorta di cazzeggio infinito come approccio fondante, o comunque dominante, alla dimensione simbolica e comunitaria.
Ci dev’essere una connessione inconscia fra l’assunto per cui le macchine non possiedono il senso dell’ironia (sembrano cioè strutturalmente incapaci di giocare sul piano metaforico) e il fatto che utilizziamo molto spesso chatGPT e simili per ridere di noi, per quanto questo riso sia a volte screziato da paure per la “grande sostituzione”. Sempre alla Biennale Danza, lo spettacolo Still Life del coreografo e regista norvegese Alan Lucien Øyen sembrerebbe a tutta prima andare nella direzione opposta. La sua performance è infatti una riflessione, a tratti quasi una inquieta elegia, che riguarda l’ambiente naturale, gli spazi sconfinati, e l’uomo di fronte al cosmo di cui fa parte. Sono due danzatori, Daniel Proietto e Mirai Moriyama, a intessere un continuo dialogo – fatto sia di movimenti che di parole – fra di loro e con il contesto che li circonda (quasi mai raffigurato, ma sempre evocato: una vetta da scalare, una foresta, a un certo punto anche la rete virtuale del web). Ogni tanto, vengono accompagnati da un coro che, grazie all’armonia dei suoni, cinge percettivamente i corpi al centro della scena, che si muovono di una leggerezza non leziosa, con decisione sempre controllata – lasciando che l’illuminazione disegni e metta in risalto le fasce muscolari. Still Life ha un procedere illustrativo, vagamente naturalistico. Anche, almeno in alcune occasioni, sottilmente perturbante: la contemplazione del cosmo e del posto dell’uomo nel mondo diventa a un certo punto un rito oscuro (i membri del coro indossano maschere e la luce di scena si tinge di rosso), a ricordare lo stretto legame che intercorre fra il senso del sacro e l’ombra della violenza. A tutti gli effetti, santificare qualcosa – come può essere la natura – significa provarne un timore atavico, se non orrore, al tempo stesso viscerale e reverenziale. Salta all’occhio, dentro al contrapposto “argomento” trattato nei due spettacoli, l’apparente complementarietà dei titoli: andando verso i territori di un’etica (quasi più che un’estetica) “cyborg”, esplorando le promesse di nuovi artifici e di nuove tecnologie, Nicole Seiler sceglie comunque di mettere l’umano (Human in the Loop) al centro della sua proposta; Alan Lucien Øyen con Still Life, pur partendo da un accenno vitalistico e attraversando scenari tellurici e siderali, comunque decide, o si propone, di congelare la vita, di irretirla, di contemplarla infine nei suoi aspetti più astratti e macchinici.
Il cosmo e la tecnica, allora, come estremo rifugio, l’intelligenza artificiale e la spiritualità vitalistica come continuo escapismo: la fuga dalla necessità, o dalla condanna, di pensare ogni natura in quanto seconda natura, risultante implicite delle scelte che non cessiamo di compiere, anche inconsciamente. In questo senso, forse, il teatro e la scena rappresenteranno sempre un “piano di frizione” rispetto alle tentazioni di transfert degli interrogativi umani verso esterni possibili (le promesse dei mostri), e in particolare in quel punto terzo della visione che è lo spettatore nella sua costitutiva indeterminatezza e indecisione, nei suoi bisogni simbolici che chiedono di essere riflessi ed espressi. Già nel 1982, commentando uno dei primi simulatori di dialogo fra esseri umani in chiave psicanalitica (il chat bot Eliza), scriveva Elvio Fachinelli:
«Qui non è in causa semplicemente il fatto di amare – o odiare – una macchina come un essere umano. Questo ci è ben noto (basti pensare al rapporto con l’automobile, la “macchina” per eccellenza nella nostra lingua). Con Eliza, e in misura certo maggiore con le macchine più sofisticate a essa successive, sembra profilarsi una passione rammemorante, in cui l’elaboratore raccoglie e concentra su di sé, al pari di un analista, sentimenti, affetti, problemi sorti altrove… Tra la macchina e il suo “paziente”, quale impossibile relazione si verrà formando? Quali intrecci? Mentre scrivo, io stesso sorrido. Ma il rapporto tra l’uomo e le sue macchine non è una costante invariabile. E neppure pacifica. Ciò che oggi risulta accostamento derisorio alla relazione interumana potrebbe domani rivelarsi insieme complesso, ovvero, per usare un termine tecnico molto significativo, potrebbe dar luogo a un’interfaccia sensibile, con scambi in più direzioni. Si potrebbe arrivare a chiedersi: chi parla a chi? Chi è macchina?».
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.