Non poteva che schiudersi teatralmente l’appuntamento con uno dei drammaturghi più interessanti della scena internazionale: ovvero da un esercizio di scrittura svolto in un laboratorio condotto da José Sanchis Sinisterra, a partire da una fotografia. Il copione dell’allievo Mayorga ruotava attorno agli interrogativi sollecitati dall’osservazione, riproducendo la problematizzazione della visione e l’immaginazione di elementi incogniti che dovrebbero innescarsi nello spettatore teatrale.
Proprio dal maestro Sinisterra, Juan Mayorga ha assimilato l’estetica della reflection: se suo perno è l’assioma che «il teatro presuppone la figura dello spettatore ed anzi avviene nello spettatore», corollario ne è «la sovranità dello spettatore». Ultimo anello di una catena che a partire dall’autore si snoda attraverso il regista, gli attori e i vari tecnici, il pubblico completa l’opera grazie alla propria immaginazione, prolifica in molteplici direzioni: visivamente, sopperendo all’astrattezza scenica; e soprattutto concettualmente, indagando le lacune relazionali messe in scena. Rispetto ad altre forme letterarie, «il testo teatrale ha dunque il privilegio di sapere più di quanto lo stesso autore sappia» perché «alcuni suoi aspetti sono disvelati o istituiti dal pubblico».
Mayorga rifiuta un teatro naturalistico che «oggi non potrebbe più competere con la televisione o il cinema»; le sue piéce richiedono allestimenti essenziali che, come il testo, «non siano ridondanti rispetto alla vita» e si sostanzino di «elementi carichi di necessità». Il minimalismo scenico implica forzatamente la fantasia spettatoriale ed esige attori virtuosi per capacità di convincimento e coinvolgimento in una complicità che si svincoli da ancore realistiche. In questo tratto estetico, leopardianamente fondato sull’indeterminatezza, Mayorga riconosce l’affinità elettiva del teatro con la poesia, piuttosto che con la narrativa.
Una simile concezione rappresentativa non punta solo sulla facoltà suggestiva ma evidenzia pure la funzione poietica del linguaggio, supportata da contenuti o inserti metateatrali che la palesano nei vari ambiti comunicativi: l’interpretazione del messaggio, e quindi della realtà, dipende dal codice linguistico dell’emittente e dalla sintonia con quello del ricevente. Esempleare ne è Hamelin, «un’opera sul linguaggio», prima che sulla pedofilia: «su come il linguaggio si forma e su come può ammalarsi ed ammalare la realtà». Tra i protagonisti c’è un conflitto linguistico che si riverbera in una differente lettura ed approccio alla realtà: il giudice, la psicologa, i genitori adottano ciascuno un proprio codice che corrisponde ad una personale prospettiva del reale e ricalca discriminazioni socio-economiche «che tutt’oggi proclamazioni di diritti umani non hanno saputo sanare». La violenza e l’esposizione ad essa cominciano dal linguaggio e a perdere sono coloro che non ne possiedono gli strumenti: i più poveri e i più piccoli.
L’estetica della reflection è persuasa e persuasiva delle potenzialità sociali e socialmente eversive del teatro. «In una società in cui la gente è trattata solo come un consumatore, dovrebbe essere un piacere essere riconosciuti come uomini intelligenti». Inoltre, la poetica illustrata si allontana da certe diffuse abdicazioni ad un’appagante acquiescenza: «Scrivere per un pubblico non significa offrirgli in pasto ciò che si attende; la massima forma di rispetto consiste nel sollecitare la sua sensibilità e il suo senso critico». Il teatro di Mayorga non si vuole autoritario, né didascalico, men che meno univoco: rifugge da giudizi netti e propone un’etica problematicizzante, cauta e sospettosa, inquisitoria, a cui sensibilizzare gli astanti: «Spetta alla sociologia offrire spiegazioni, al teatro invece esprimere un’anomalia». Sulla scorta di Kierkegaard, Mayorga si avvicina e avvicina alla verità intraprendendo il cammino dell’eccezionalità e della straordinarietà: «Poiché la legge si palesa dov’è sospesa». Di qui l’indagine su temi anomali, come, appunto, la pedofilia.
il suo teatro è storico, in quanto recepisce l’urgenza di intervenire su temi attuali, pur non trascurando la dialettica tra presente e passato. Ed è pure politico, non nel senso di veicolo di ideologie, bensì secondo un’accezione brechtiana: il teatro «convoca la polis ad un’assemblea», riconduce l’individuo a relazionarsi con la società e la collettività a confrontarsi con l’attualità. Chi lo allestisce e chi ne usufruisce sono entrambi testimoni e compartecipi della contemporaneità, oltre che dell’evento scenico. Il teatro è dunque «l’arte del futuro» in quanto «arte della comunità».
«Il teatro può cambiare il mondo e la società? certo come un vaso su una finestra, come una strada pulita cambia la qualità soggettiva della vita». Inoltre, «il teatro è un mezzo semplice ed elastico» per arricchire l’esperienza esistenziale dei suoi fruitori, potendosi far carico di ogni vicenda umana, maggiore o minore. Viene da chiedersi, però, cosa ne sarà di un teatro potenziato dall’immaginazione dello spettatore in una società che va ipotrofizzando la capacità immaginifica, riflessiva e critica collettiva.
Premio Nacional de Teatro 2007 in Spagna, Juan Mayorga (Madrid, 1965) conta una formazione forse atipica, ma invidiabilmente versatile: una laurea in matematica, una in filosofia, e un dottorato dedicato alla filosofia della storia in Walter Benjamin. [..] si è imposto da qualche tempo come il drammaturgo spagnolo di riferimento non solo in patria, ma anche sulle scene europee [..]. Teatralmente si forma nei seminari di Marco Antonio de la Parra e José Sanchis Sinisterra; nel 1998 frequenta a Londra la Royal Court Residency, sotto la guida di Sarah Kane e Meredith Oakes; a partire dallo stesso anno insegna Drammaturgia e Filosofia presso la Real Escuela Superior de Arte Dramático de Madrid. [Davide Carnevali, dalla curatela di Teatro di Juan Majorga, edito da Ubulibri]
di Silvia De March
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.