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Le macchie del candore. L’innocenza della “Semiramis” dei Menoventi

di Altre Velocità

«Menoventi è un dato, una temperatura. Che sia fredda, freddissima, poco importa, basta andare a casa e guardare il termometro al contrario. Oppure mettere sottosopra la realtà». Così si presentano i Menoventi; fa loro eco la risoluzione di Semiramide, protagonista del loro recente spettacolo: «E siccome il mondo ha fatto di me una puttana, adesso io ne faccio un casino».
Le loro qualità eversive sono state riconosciute al concorso Extra 2008, in cui Semiramis si è aggiudicato il secondo premio per «la capacità di reinventare un teatro totale in cui la dimensione attoriale, quella spaziale e quella immaginifica si fondono in un impasto originale felicemente in bilico tra tradizione e innovazione».
Il merito si imprime con immediato impatto a livelli percettivi stratificati; qui ne esploriamo alcuni.

Abbagliante e agghiacciato è il candore dell’intimo spazio scenico, edificato da piastrelle asetticamente bianche e ossessivamente regolari, che con forza centripeta si schiude allo sguardo grazie ad una pianta trapezoidale che rende indefinito il confine tra palcoscenico e platea e diverge verso il pubblico, abbracciandolo ed introiettandolo. Simile ad un bagno pubblico, eppure purgato di oggetti, arredi, eventuali sanitari: uno sgabello e un mobiletto con specchio, soli. Sola, una donna, candida di una veste da internata, di un’espressione disorientata, interrogativa, timida. E’ già presente in scena, seduta sullo sgabello a scrivere per terra con i piedi: “c’è qualcuno che vuole venire qui?”.
L’allestimento ricorda Purificati di Marco Plini (Biennale del Teatro di Venezia, 2004): un agone bianco con spigoli al neon; e il personaggio ben s’inserisce in un clima kaneiano: con la sua perplessità, l’entusiasmo trattenuto o manifesto e deluso, gli scatti dinamici, vanificati per quanto prima studiati da attenti e circospetti occhi scrutanti, il corpo teso e a tratti spastico, a tratti robotico. Rispetto alla tragicità disperata della Kane c’è un’ingenuità adolescenziale di certo più leggera ed ironica, ma in definitiva non sicuramente meno cupa. Se siamo in un bagno, di un bagno scolastico si tratta, dove i muri sono fogli più allettanti e comunicativi dei quaderni. “Semiramis ♥ Tiresia”, “non dirmi di stare zitta” e altre sillabe che via via si scompongono e compongono violano una fittizia purezza con la punta del rossetto o di dita imbrattate di cipria: cosmetici femminili riscoprono e reinventano la propria natura espressiva. 
Semiramis o Semiramide è in un luogo non mentalmente igienico. Di chiusura, reclusione, isolamento afasico. E la scrittura trasgredisce l’interdizione della parola propria della dimensione autistica in cui la solitudine relega, realizzando un dialogo che non si dà. Il desiderio di tendersi ad un altro ed un altrove è percettibilmente represso, nella migliore delle ipotesi fallacemente sospeso. La protagonista vede il pubblico ma sa di essere osservata, distanziata, e se ne sta al suo posto, nel suo ruolo, non tentando un’interazione salvifica.
«C’è qualcuno?» dice a voce alta ad un vuoto che la riecheggia. Con quest’eco e con lo sdoppiamento della protagonista allo specchio, la drammaturgia varia la regolarità del monologo e introduce un interlocutore reattivo ma ieratico. Nascono raffinati giochi linguistici tra domande e finali monosillabici (no, -si, -io, re, è, -amo), che illuminano un volto avvilito. E lo ingannano. Perché la follia è in primis ambientale e contestuale: stordisce chi ad essa non si adatta. D’altronde una profezia incompleta accennata di lato proclama: “sei nata da violenza” – «capita!», controbatte la donna leggendo; e nelle successive due righe il termine “violenza” smaccatamente si ripete.
«Tiresia voglio uscire!» Il gioco non regge molto la tensione del desiderio di amore, libertà, piena esistenza. E la scena comincia ad essere sfondata: la prima via di fuga passa attraverso il mobiletto, la cui anta specchiante, ruotando nell’aprirsi, riflette il pubblico e lo rende compartecipe degli accadimenti. Semiramis esplora il retroscena, mentre scattano musiche da calvacata e fanfara che frangono il silenzio in modo roboante ed epico. Rientra eccitata: sostituisce “Menone” a “Tiresia” nella dichiarazione d’amore. Accanto, sulla parete di fondo, disegna una cornice: una finestra? Basta schizzarlo e lo spazio si inventa, varia, si modula al tratto. Il riquadro accoglie un ritratto: prima il proprio, con cui confrontarsi; poi quello di un re, da toccare ed amare. Ma Semiramis, segregata da immemore data da Tiresia, si e ci chiede: «Un maschio è fatto così?»; e prova le battute di un dialogo con un amante a venire. Non essendo corrisposta, con rabbia scaglia un oggetto e colpisce il muro: le mattonelle cedono in corrispondenza della corona abbozzata. Semiramis capisce il trucco e affonda colpi sulla sagoma del re desiderato. La attraversa, saluta la libertà e l’amore, ed esce.
Ritorna, come rinata, splendente, sicura di sé. Ha un detergente: cancella la profezia che in realtà subisce un effetto evidenziatore; deterge se stessa ma il risultato è imperfetto. Ricorda Macbeth, con le sue mani irrimediabilmente macchiate. Ma lei si affaccia al proscenio raggiante. Calano le luci. Il pubblico applaude. Inchini di consuetudine.

L’attrice protagonista, Consuelo Battiston, risulta già straordinaria nel disporre il proprio corpo al servizio di un personaggio che attraverso esso esprime un’interiorità tesa e contorta; singolare nell’assumere volti espressionistici, proponendo un corrispettivo femminile di Totò; versatile nell’alterazione nevrotica che ci fa intravedere una giovane Ermanna Montanari. E lo conferma ulteriormente nella seconda parte.
Infatti, le luci si accendono, lei ringrazia ma si lamenta: “Basta, bravi, la prossima volta, vorrei almeno sentire gridare il mio nome”. E lo spettacolo sorprendentemente riprende.

L’apertura sulla sagoma del re si è rivelata soglia nuziale e non via d’uscita ma transizione ad uno status apparentemente altro, in realtà identico al precedente. Divenuta regina, Semiramis non è meno sola ma il suo atteggiamento muta e la libertà conquistata si traduce in libertà d’essere imperiosa, derisoria, persino sadicamente violenta: pretende applausi, fiori, soprattutto risposte; bandisce assemblee in cui detta gli ordini del giorno, anzi, del momento e le loro beffarde risoluzioni; al silenzio controbatte con una dialettica più decisa e aggressiva e alla fragilità pur contestataria del passato subentra una fredda impassibilità. Addita il pubblico colpevolizzandolo di aver «sbattuto gli occhi» o di «pensare ad altro»: tutti possono essere coinvolti, colpevoli, esposti alla minaccia e ad un’implicita punizione. La risata si fa più frequente ma di una stupefatta perversione e l’humor linguistico si raffina ulteriormente. E’ l’ora della vendetta? Pur semiserio e irrisolto, si resta nella dimensione del gioco.
E con ilarità infantile la nobildonna si piscia addosso per sottoporsi ad un test di gravidanza, misteriosamente immesso in scena e accolto come un «ambasciatore». Sbrigata la conoscenza attraverso istruzioni per l’uso da cui «c’è sempre da imparare» e attraverso l’attesa – a cui «ci sono abituata» – di due precisi minuti, l’angelo reificato annuncia, con una risposta affermativa, l’imminente arrivo del principe «Sì» – che «sarà un re di polso» – ad esaudire l’iniziale richiesta: «C’è qualcuno che vuole venire qui?». Alle piastrelle del «qui», infatti, Semiramis si approssima, le alza e scruta. «Che sia il figlio se volete il figlio!», e nel buco e nel buio si tuffa. Perché nessuna regina è sovrana rispetto ad un destino prestabilito; ed il vaticinio detta: “sei nata da violenza / semini violenza”.
Quando la scena si illumina nuovamente, il suo corpo steso a terra a poco a poco si rialza e assume una nuova identità: cambia trucco, diventa il figlio e chiama una madre che non c’è. Si approssima al muro della profezia e la conclude: “…semini violenza / con violenza perirai”. L’azione è scritta, non agita, e la scrittura non si limita a comunicare ma è effettuale. La morte non è andata in scena ma è accaduta scrivendosi; resta da verificare quanta violenza sia stata seminata.
Semiramis e Sì condividono un’analoga solitudine, un’analoga iniziale titubanza ma lui appare più pacato nei modi. Annuncia riforme di giustizia e legifera con sillogismi tautologici che si autodemistificano: «in tempo di guerra i nemici saranno abbattuti, gli amici ricompensati; in tempo di pace i nemici saranno ricompensati, gli amici abbattuti – è giusto». La morale “buonista” mette in evidenza l’equivoco di un’amministrazione regolata da un presunto buon senso, in antitesi alle smodatezze di Semiramide: «buon governo ai governatori, buon consiglio ai consiglieri, buone maniere alle nostre mani, buon senso ai sensitivi, buon giorno ai giornalisti, buon Natale ai Natali, buona Pasqua ai Pasquali, buoni pasto ai pastori»…
Il cerchio (e lo spettacolo) si chiude e schiude il senso dell’oracolo quando il nuovo re assume l’espressione materna e si smaschera: «ci siete cascati, eh? sono sempre io»; c’è di nuovo Semiramis in scena, ma in quale corpo? nel suo o in quello del figlio? Il gioco col doppio diventa sottile e l’unica certezza e la conferma di un’etica geneticamente condizionata.

L’ipotesto della messinscena è La figlia dell’aria di Calderón de la Barca e questo è solo uno degli indicatori dell’erudizione dei giovani componenti della compagnia: Dürenmatt Bataille Enzensberger, Camus, Agamben, Giràrd sono gli altri nomi citati nelle interviste offerte nel 2008 ai riflettori di Ex.Terni e del Premio Extra. Pure la colonna sonora gode di articolazione e nobilitazione grazie ad innesti ricercatamente classici.
Ma lo spessore culturale non passa intellettualisticamente e questo è un merito: si sostanzia in una sapienza teatrale già prossima alla maestria; in un linguaggio ironico o umoristico che si vuole, a detta degli autori, per certi aspetti “popolare”, capace di una comunicatività di massa; in una vivace alternanza di momenti che elude ombre di mono-tonia, in senso lato; nel sovvertimento di un’impostazione canonica e retorica della messinscena a cui siamo assuefatti quando si trattano i classici.

I Menoventi sono Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele. La compagnia nasce dall’incontro tra Gianni e Consuelo a Santarcangelo nell’autunno 2001, durante il progetto Zampanò. Uniti da comune sentire teatrale, i due collaborano all’organizzazione di laboratori per le scuole, seminari e spettacoli, fino alla scoperta di Alessandro, nel novembre 2003, all’interno del corso di formazione Epidemie, guidato Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Con le Albe vanno in scena in Salmagundi nel luglio 2004.
Nel 2006 In festa è lo spettacolo che li lancia. Fin dall’inizio condividono la scelta di non attribuirsi distintamente i ruoli regista, drammaturgo o scenografo, individuando nella sinergia l’ingrediente magico della loro creatività.

di Silvia De March

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