In tempi non sospetti, quando Laura era ancora una semplice studentessa del DAMS e io una fresca neofita del mondo teatrale bolognese, le ho chiesto prima di una riunione di redazione se avesse voglia di darmi qualche ripetizione di storia del teatro. Mi ha risposto di sì, ma poi c’è stato il Coronavirus e ognuno a casa sua, a girarsi i pollici, afflitto da piccole e grandi preoccupazioni. Anche se ognuno proprio no, nel senso che mentre io mi giravo i pollici, Laura e tre amiche damsiane (Silvia Strambi, Noemi Mendolia e Alessandra Vita) hanno lanciato la proposta Un monologo al giorno, una pagina Instagram che oggi conta più di un migliaio di followers e raccoglie ogni giorno il video di un nuovo monologo, recitato a casa propria da più di quaranta attrici e attori. Inizia tutto con una proposta su WhatsApp da parte di Silvia, a cui Laura risponde «dai, vediamo se qualcuno ci sta» e solo nella prima settimana i seguaci diventano seicento, gli attori che si propongono trenta. Così tanto materiale che ben presto il limite inizialmente fissato per il 3 aprile si sposta a data da definire e le ragazze sviluppano un palinsesto suddiviso in rubriche: il lunedì Shakespeare, il mercoledì cabaret, il giovedì della poesia, il venerdì tragedia, il sabato persino un quizzone sui monologhi proposti in settimana. Nelle Stories presentano la sinossi dei pezzi, con Whatsapp si danno feedback sulle performance, via Internet, insomma, cercano forme di sopravvivenza per questo teatro fisico che manca a tutti tantissimo.
«Creare qualcosa, in questo momento liquido, aiuta a dargli una forma», mi dice Laura in una chiamata Skype dove le chiedo di parlarmi del progetto, «mi aiuta a pensare che questo non sia un tempo di attesa, ma di azione». Ma non è vero che il successo dà a tutti alla testa. Laura, ad esempio, è molto riluttante all’idea che io scriva un pezzo sull’iniziativa, forse proprio perché memore di quella proposta di ripetizioni che era un’esplicita richiesta di aiuto. Così mi propone un’alternativa. Stanno nascendo mille iniziative diverse, mi dice, con approcci anche opposti – si pensi al teatro in streaming e alle favole al telefono – per mantenere attiva la comunità teatrale, e «tra noi [attraverso questo progetto] se ne sta creando una online». Una comunità non solo pensata come insieme di teatranti che lavorano o di spettatori che, pur se difficilmente interrogati e integrati dall’atto scenico attraverso lo schermo, guardano lo spettacolo online: una comunità che può essere intesa, forse oggi anche più di ieri, come la collettività intera, dai bambini che ricevono le telefonate del ragionier Bianchi alle vecchie bibliotecarie che si registrano mentre leggono i loro testi preferiti. Andando a includere chi canta dal balcone, chi fa stand-up in diretta Facebook e certe forme di teatralità, se vogliamo, che assumono di questi tempi le figure politiche sprovviste del palco dei comizi. Allora, perché non partiamo da Un monologo al giorno per parlare di questo? Di come la comunità è stata e può essere intesa, delle esperienze e delle sperimentazioni, di dove siamo stati e dove andiamo? Eccomi dunque china sulle sudate carte, che in questo caso sono il mio computer e i portali online delle biblioteche dell’Emilia-Romagna, alla ricerca di materiale per la mia prima lezione privata di storia di teatro: le comunità teatrali. Internet come sempre mi propone mille cose tra cui non so orientarmi e decido di partire dalle esperienze che suscitano di più la mia curiosità: la scuola di danza di Rudolf Laban a Monte Verità, Canton Ticino, e la compagnia nomade del Living Theatre tra gli anni Sessanta e Settanta.
Elena: Nel 1913, alle porte della Grande Guerra, Rudolf Von Laban, al tempo trentaquattrenne e già danzatore e coreografo, fondava in Svizzera la prima grande comunità di danza libera, una scuola-colonia che avrebbe operato fino al 1918. La sede era il Monte Verità, già dal 1900 casa di una comune pacifista, nudista, vegetariana, in opposizione alla proprietà privata, all’ideologia politica e dogmatica e a convenzioni sociali quali il matrimonio o l’abbigliamento. Scrive Silvana Barbacci in un suo saggio:
«Come riferisce Evelyn Dörr, Laban e gli intellettuali liberali di cui faceva parte, “tentarono di utilizzare questa visione romantica (della danza, ndr) per un nuovo concetto di comunità e di contrapporre un nuovo sistema di riferimento alla società che sembrava in rovina quasi per riconferire un più alto significato alla vita. Erano alla ricerca di una motivazione ultima per collocare l’uomo nell’universo”. Il movimento che diventa espressione teatrale è dunque espressione di sé, ricerca su sé stessi ma anche momento di vita comunitaria. Dal movimento Laban prese l’avvio per indagare il rapporto mente-corpo e individuo-gruppo».
Sembra dunque che questa esperienza di comunità di persone, prima ancora che di professionisti, secondo la famosa espressione di Laban “ognuno è un danzatore”, nasca proprio da un momento di forte crisi politica e sociale, in cui è necessario ristabilire prima di tutto un rapporto con la collettività e, attraverso questa ricerca, con se stessi. Come Laban rivoluziona il rapporto tra ballerino e spazio rendendo il secondo modellabile dal primo, così l’individuo e la collettività, durante la crisi, devono rivoluzionare il loro rapporto per esplorare insieme espressioni più sane e gioiose di vita?
Laura: Sì, direi che il senso di una comunità è questo: quando in un gruppo di individui si può arrivare alla salute del gruppo, considerando la salute del singolo membro come punto di partenza. In una situazione come quella odierna, in cui non ci si può avvicinare oltre il metro di distanza e ognuno è costretto e confinato a casa propria, è chiaro che non possiamo identificarci come corpi, e pensare alla nostra salute a partire da questi ultimi, come avveniva nella comunità di Laban. La frase “ognuno è danzatore” ci identifica universalmente come corpi. Il danzatore, infatti, è custode di un tempio che mira a ospitare le muse della musica: c’è molto paganesimo, in questa affermazione, ma Laban aveva una concezione religiosa, spirituale della sua comunità, come lo stesso teatro che affonda le sue radici nel mito. Oggi, tuttavia, non è possibile pensare un corpo in termini spirituali: il nostro corpo non occupa più uno spazio concreto, sulla scena e nel mondo, e la libertà d’espressione individuale è fortemente limitata allo spazio delimitato dalle quattro mura domestiche. Certamente, esistono dei progetti online che permettono alle persone di danzare seguendo delle “lezioni” in diretta Instagram o accordandosi coi loro maestri su Skype, ma forse, in questo momento, si tratta di qualcosa che serve di più alla mente che al proprio corpo. Il vero motivo per cui necessitiamo di queste “lezioni a distanza” è il medesimo per cui abbiamo ancora bisogno dell’arte: dobbiamo preservare la nostra salute mentale. L’artista, in questo momento, non è un disoccupato, passivo spettatore del fallimento economico dell’industria teatrale: ha un ruolo cruciale nella misura in cui riesce a non scindersi dalla società, come invece intendeva fare a suo tempo Laban. Il compito di un artista è fare arte. Il compito dell’arte è quello di dare speranza, ora, e conforto. Se l’attore si espone sui social è per adempiere ad un ruolo sociale, per contribuire al benessere psico-fisico della comunità, confortando, intrattenendo o offrendo spunti di riflessioni.
Se dovessi fare un esempio, io non credo di essermi mai sentita tanto confortata da un contenuto sul web com’è successo poco tempo fa con la voce di Toni Servillo che legge, per l’iniziativa dell’Università di Bologna Parole per noi, l’Eneide di Virgilio: Enea porta in spalle il proprio padre, fuggendo da una Troia sotto assedio, fatto che mi ha ricordato che lo scopo della quarantena è anche tentare di aiutare coloro che si sono presi cura di me durante la mia infanzia, quando ero io, l’individuo a rischio, l’individuo debole, quella da proteggere. Il mito in sé non basta ad associare le gesta di un eroe al minimo contributo personale che offriamo alla società, in questo preciso momento storico, restando a casa: per far sì che questo avvenga, ci vuole la voce di un attore.
La voce di un attore cambia sempre tutto, che questa sia su Instagram, dal vivo o al cinema. Perché proprio l’attore, ma anche il pittore, il danzatore, il musicista, e non ad esempio il politico, l’avvocato o lo statista? Perché l’arte non soltanto spiega, ma fa vedere, e accettare qualcosa che si può vedere è sempre più facile che accettare l’invisibile. Il mio corpo resiste perché la mia mente sa che c’è ancora un mondo, là fuori, che vale il mio sacrificio. E questo mondo per cui resistiamo, mi giunge dall’esterno tramite l’arte. Rousseau scriveva che il messaggio migliore che può arrivare ad un uomo disperso nel deserto è il canto di un altro uomo, e posso capire perché.
Nel momento in cui, dopo giorni di marcia, in solitudine, si sente una voce che canta, ci si rende conto di essere salvi, perché un uomo che canta è per forza in salute, in forze, sia fisicamente che mentalmente. Un uomo che muore di stenti non si mette a cantare, né se non è in pace con se stesso: una fonte d’acqua è sicuramente vicina, non si ha più bisogno di aver paura. Ecco perché si canta dai balconi, ecco perché recitiamo monologhi online, ecco perché ci chiamiamo su Skype per fare lezione di danza. Ogni uomo è danzatore, per il suo prossimo. Mariangela Gualtieri ci scrive una poesia, dedicata a questo concetto: «C’è un molto forte richiamo della specie, ora. E come specie deve pensarsi ognuno. (…) Tutta la specie la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo».
Laban voleva integrare spirito e corpo, uomo e natura. Adesso si ha solo bisogno di integrare l’uomo con l’uomo, sentirsi vicini, sentire che siamo uguali. L’autocoscienza in rapporto all’altro è una costante, in tempi difficili. Laban intendeva rinunciare alla società, ma noi non abbiamo a disposizione una colonia svizzera per passare la quarantena: l’unica natura in cui possiamo rifuggire è dentro di noi.
Elena: Sempre da premesse di grave conflitto ideologico e sociale nasce la sperimentazione del Living Theatre, soprattutto nella costruzione di una comunità, di nuovo, prima di persone che di teatranti: un collettivo teatrale organizzato in modo non gerarchico che punta all’abbattimento dei muri tra teatrante, spettatore e collettività umana, in vero spirito anni Sessanta. La comune del Living Theatre, come hanno raccontato i partecipanti in numerose interviste, condivideva prima di tutto un’etica: pacifismo, anarchia, amore per il teatro come strumento sociale, rifiuto della monogamia, dell’autorità, della gerarchia, utopia della comune come nuova terra di esplorazione libera. Cito Julian Beck:
«Perché l’uomo possa veramente vivere creativamente in una comunità, bisogna stabilire una situazione nella quale l’individuo non sia sacrificato al collettivo, né il collettivo all’individuo. Allora devi portare l’aspetto della collettività all’interno del lavoro individuale. Nel Living Theatre abbiamo tentato, come mezzo di salvezza personale, di eliminare l’autorità. E questo cominciando da me, eliminando me stesso: mi sono autoeliminato, come fondatore, come direttore del teatro. Mi sono cancellato. Il problema si può definire così: come fare uno spettacolo senza il dominio autoritario, la tirannia dell’autore o del direttore o dello scenografo? Come stabilire una situazione di gruppo nella quale la singolarità di un individuo, che domina il gruppo, possa essere abolita?»
Laura: Bisogna fare una premessa, e cioè che Julian Beck, come tutti i teorici del teatro del Novecento, cerca di giungere a un teatro utopico che si pronosticava già nelle teorizzazioni di Appia all’inizio del secolo: «L’arte drammatica di domani sarà un atto sociale al quale ognuno porterà il suo apporto», così riporta Ferruccio Marotti in La scena di Adolphe Appia, nel tentativo di spiegare il «sogno più vasto del teatro». La risposta di Beck, quindi, è quella di una creazione collettiva, di un gruppo che vive e crea insieme: un processo di sincresi tra vita e arte, comunità umana e collettivo teatrale. Con una pandemia in corso, però, quest’idea di vita insieme è impossibile: l’attore, infatti, isolato come chiunque altro, è costretto a sopperire con una comunità virtuale alla mancanza di quotidianità che offre il lavoro in gruppo.
Ed è così che il web è diventato un coro di solisti. Il guaio è che c’è bisogno dello spettatore, per fare teatro.
Un attore in quarantena può raggiungere il suo pubblico solo tramite forme surrogate di teatro online, le uniche concesse in questo periodo: il soliloquio, la telefonata, la diretta Instagram, il così detto “teatro individuale”. Sono forme di teatro che inevitabilmente coinvolgono più di una persona, eppure restano, inevitabilmente, in ogni caso, dei solipsismi.
Farò l’esempio di Un monologo al giorno: in questo caso, l’attore interpreta un monologo in casa sua, senza pubblico, senza direzione, senza spalla, e si registra col cellulare. Il processo avviene in solitudine, perché la condivisione di un qualunque processo creativo, come lo intende Beck, in questo momento storico ci viene interdetto.
L’attore è perciò obbligato a «sacrificare il collettivo», usando le parole di Beck, a favore di questa nuova forma di teatro in solitudine: un non-teatro che si fonda sulla condivisione di un prodotto. Un prodotto finito, compiuto, il dignitoso resto di una performance già finita, nata morta, ma a cui nessuno ha assistito hic et nunc. La comunità, dunque, manifesta la sua ragion d’essere dopo la fine del processo di creazione (né prima, né durante) – e ricopre il ruolo di spettatore. Uno spettatore un po’ più potente, un po’ più interattivo, un po’ più distratto. Uno spettatore destinatario, piuttosto che testimone.
Se si spulciano i social, di questi tempi, si nota una varietà eterogenea di materiali telematici, dalle iniziative dal basso alle riprese in teatro dei grandi attori, fino ai progetti radiofonici e a telefono. Ci sono tracce di teatralità, sul web, incontrovertibili. Eppure non c’è teatro. E dunque, è davvero possibile creare una comunità teatrale dove non c’è teatro?
Il sogno più vasto del teatro, potrà mai contemplare l’esposizione del proprio monologo su una vetrina democratica come quella dei social, a cui ognuno può contribuire?
Certamente, queste iniziative hanno qualcosa in comune: hanno tutte origine da un teatro negato, ma anche e soprattutto da un bisogno individuale dei singoli artisti, da reazioni individuali a diversi stati emotivi. Alcune di queste voci nascono dalla paura, altre dalla rabbia, forse perfino dalla noia, come anche altre vengono imposte dall’esterno, dai teatri o dalle stesse compagnie.
Il teatro in quarantena nasce da diversi bisogni, e per questo io credo che difficilmente si renderà uniforme dal punto di vista formale.
La comunità però c’è, esiste. Perché l’emancipazione dei singoli progetti non esclude la solidarietà verso gli stessi. In qualche maniera, una maniera ben lontana dall’essere utopica, questa comunità sopravvive nella duplice natura del fruitore di questo auto-teatro, che si fa sia attore che spettatore. Io stessa, ad esempio, sono stata spettatrice dei monologhi che ho recitato e che ho caricato su Instagram, oltre che a quelli dei miei compagni. Questi progetti esistono per noi, non per il teatro in sé. Perché un like, a teatro, non vuol dire niente là fuori nel mondo reale, ma vuol dire tutto qui dentro, al chiuso tra le nostre quattro mura: è l’indice di un interesse ancora sveglio per un’arte che invece è quiescente. La solidarietà esiste perché si soffre la nostalgia, e la nostalgia garantisce la volontà di ritornare a teatro. Ci fa credere che il teatro ha ancora speranza di sopravvivere.
Il teatro online è contraddittorio e sterile per quel che riguarda il suo potenziale artistico, ma ha motivo di esistere in relazione alle persone che ne fruiscono: loro sono la prova che il teatro ancora ci sa regalare emozioni (anche se contrastanti) e che, in qualità di arte umana al servizio della comunità, ha ancora molto da offrirci.
Elena Magnani e Laura Astarita
Bibliografia essenziale
Fabrizio Cruciani, Registi pedagoghi e comunità teatrali del ‘900, Editoria & Spettacolo, Roma, 2006
Cristina Valenti, Storia del Living Theatre: conversazione con Judith Malina, Titivillus, Corazzano, 2008
Rudolf von Laban, L’arte del movimento, Ephemeria, Macerata, 1998
Franco Quadri (a cura di), Il Lavoro del Living Theatre: (materiali 1952-1969), Ubulibri, Milano, 1982
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.