Questo articolo fa parte di “Raccontare i festival”, un progetto promosso dalla nona edizione di Insolito Festival (a cura di Associazione Micro Macro, referente del progetto Angela Forti) e dal corso di laurea magistrale in “Giornalismo, cultura editoriale, comunicazione ambientale e multimediale” dell’Università di Parma (referente la professoressa Roberta Gandolfi), in collaborazione con Festival L’Altra Scena, Vie Festival e le riviste online Teatro e Critica, Altre Velocità e Stratagemmi. Gli studenti che hanno seguito le lezioni di “Teatro e informazione” erogate dal corso di laurea magistrale dell’Ateneo di Parma, tenute dalla prof. Gandolfi, si sono immersi nelle città emiliane “a misura di festival” nell’autunno del 2022, con la sfida di costruirne dei reportage capaci di raccontare spettacoli, atmosfere, luoghi, pubblici e politiche culturali di tre diversi festival teatrali sulla direttrice a nord di Bologna: Vie Festival (ERT, Modena e provincia, 7-16 ottobre), Insolito Festival (MicroMacro, Parma, 25 agosto-29 ottobre) e L’altra scena (Teatro Gioco Vita, Piacenza, ottobre). Si segnala che il reportage qui pubblicato non ha carattere professionale, bensì rappresenta l’esito di un processo di formazione universitaria e di un percorso di didattica applicata.
Noi siamo l’Entusiasta, l’Habitué e la Scettica, alias tre studenti dell’Università di Parma iscritti alla magistrale di Giornalismo (Laura Cupellaro, Luca Edoardo Moncaleano, Chiara Curotti). Grazie al progetto Raccontare un Festival, in collaborazione con tre festival nazionali e tre redazioni online, abbiamo avuto la possibilità di seguire ed immergerci in L’altra scena, il festival di teatro contemporaneo proposto da Teatro Gioco Vita di Piacenza, e siamo qui, appunto, per raccontarvelo. Questo è un anno particolare: dopo la pandemia globale, ritornano in presenza molte manifestazioni culturali, fra cui anche i festival. Ciò vale anche per Piacenza e i suoi appuntamenti di teatro contemporaneo nella cornice de L’altra scena. Dall’uno al diciannove di ottobre, il quartiere che vede l’incrocio tra Via Santa Franca e Via San Siro, brulica di persone, appassionati, curiosi, attratti dall’undicesima edizione di questo festival che si riconferma essere lo scenario privilegiato per il teatro contemporaneo nella città di Piacenza.
1. I luoghi del festival. Quale politica per la città?
Habitué: Panche e tavoli di legno hanno colonizzano la strada; il conservatorio Giuseppe Nicolini, il palazzo Ex-Enel, sede del nuovo centro d’arte e culturale XNL e il Teatro Filodrammatici, sono diventati lo scenario che ha inaugurato e accolto la prima serata del festival. Il profumo del cibo nell’aria e le chiacchiere invadenti sono stati la colonna sonora della serata. Forse è proprio questo il primo spettacolo della rassegna: quello di una comunità che si riappropria del tessuto/spazio urbano, lo spettacolo di persone che vive e condivide l’attesa insieme. Si ha la sensazione che nulla sia accaduto, e che semplicemente tutto riprenda secondo la tradizione. Questo festival ha saputo creare e consolidare una comunità, cercando, edizione dopo edizione, di allargare le prospettive e arricchire gli scenari. Come ogni anno la serata inaugurale incarna il momento conviviale per eccellenza, pubblico teatrale e non, si riversa nelle strade attigue al teatro, dando vita a quello che si potrebbe definire un evento nell’evento. Il festival prevede che per circa nove serate si possa vivere la dimensione teatrale attraverso spettacoli ed eventi speciali.
Scettica: Nonostante si parli di sguardi verso il futuro, di nuove frontiere della ricerca teatrale, e di innovativi modi di immaginare lo spazio scenico, per tutti gli appuntamenti che il festival ha proposto il luogo è sempre stato il medesimo: un piccolo teatro all’italiana, quello dei Filodrammatici, allestito con diverse soluzioni a seconda degli spettacoli della rassegna. La città ospitante non è stata minimamente esposta ed esplorata; non si percepisce aria di festival, nessun cartellone né poster o locandina. Davvero si può definire un festival?
Entusiasta: Forse non sarà un festival nel senso più canonico del termine… Ma, d’altronde, quale festival oggi lo è? Indubbiamente ci sono festival teatrali più immersivi, che prevedono il coinvolgimento del pubblico a 360 gradi organizzando le attività più disparate nell’arco di tutta la giornata per tutti i giorni di festival. E sì, è anche vero che alcuni festival hanno invece una durata maggiore (tanto da chiedersi in cosa si differenzino da una rassegna o da una stagione…), ma non è questo il caso di Piacenza. L’altra scena non è un festival per addetti ai lavori che arrivano in città per la settimana e pretendono di immergersi completamente nel mondo festival. Al contrario, L’altra scena è un festival pensato e curato per i piacentini, per i cittadini appassionati di teatro che dopo una giornata di lavoro intenso non desiderano altro che ritrovarsi fuori dal Teatro Filodrammatici, conversare amabilmente con amici e volti familiari, per poi prendere posto sulle comode poltrone e godersi lo spettacolo. In questo aspetto, L’altra scena non si differenzia particolarmente dalla programmazione della stagione teatrale e dalle altre proposte del Teatro Gioco Vita: si inserisce perfettamente nell’ottica di accogliere e coccolare il proprio pubblico ben consolidato di abbonati. Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: se è un festival per la città, in che modo dialoga con essa? Come si inserisce nell’ambiente urbano? Abbiamo già visto quali luoghi occupa, ma sarebbe interessante capire quali spazi crea in questi luoghi.
2. Stravolgere lo spazio scenico
Habitué: Spazi e luoghi sicuramente rappresentano una sfida per tutti i festival teatrali, e L’altra Scena non fa eccezione. Lo stesso Jacopo Maj, il direttore artistico, ha sempre cercato di esplorare, nelle possibilità del contesto piacentino, nuovi luoghi dove portare il teatro. Credo che per questa edizione la sfida fosse quella di ritornare al teatro e stravolgerne lo spazio dall’interno. Non più il teatro che cerca nuovi luoghi da colonizzare, ma nuovi scenari che esplodono nello stomaco dello spazio scenico. Un primo esempio di questo approccio è lo spettacolo Every brilliant thing, diretto da Fabrizio Arcuri e Filippo Nigro, e che vede lo stesso Nigro in “scena” da solo per tutta la pièce.
Entusiasta: Infatti si tratta di intervenire sullo spazio scenico! Per lo spettacolo d’apertura del festival, Every brilliant thing, nel piccolo teatro all’italiana dei Filodrammatici, si è scelto di stravolgere l’impostazione tradizionale con palcoscenico frontale alla platea. Quest’ultima, liberata di buona parte delle sedute, è diventata arena per lo spettacolo: a palcoscenico chiuso, l’attore Filippo Nigro ha invaso prepotentemente lo spazio del pubblico e ne ha preteso il coinvolgimento in una sorta di gioco di ruolo. Gli spettatori si sono trovati così a dover improvvisare interpretando ora il padre, ora la fidanzata del protagonista e concorrendo attivamente alla buona riuscita della pièce. Questa strategia è riuscita a tenere alta l’attenzione per tutta la durata dello spettacolo e ha permesso di instaurare un legame ludico con gli spettatori che funzionasse da contrappeso alla tensione portata dai temi affrontati: la depressione e il suicidio.
Scettica: Io non sono d’accordo. Sostengo invece che questo dispositivo drammaturgico distolga in parte l’attenzione dai fatti della storia; diventa quasi più interessante vedere le scelte dell’attore, e come queste si destreggeranno nei panni di attori improvvisati… Il fattore imprevedibilità, come elemento portante dello spettacolo non è stato del tutto esaustivo. Ad una vera e propria situazione di reale difficoltà, che l’elemento imprevisto può causare, come difatti è avvenuto, deve essere l’abilità dell’attore a rendere giustizia all’improvvisazione. Ordinando alle persone cosa fare e cosa dire, aspettandosi dunque ovvie risposte, di imprevedibile c’è ben poco, tant’è che in alcuni momenti la performance assumeva dei caratteri comici, non facendo per nulla percepire il delicato tema di fondo, ossia la depressione. Il pubblico viene coinvolto fin da subito ricevendo dei foglietti. “Numero 2, gavettoni” è la frase scritta su quello capitato a me. Alcune persone, intimidite e destabilizzate da questo procedimento, non sapendo cosa gli sarebbe spettato durante lo spettacolo, decidono di rifiutare; io stessa, scettica nei confronti della cosa, ho incominciato la mia visione con una lieve agitazione. L’attore, che fino a poco prima dell’inizio dello spettacolo si aggirava fra il pubblico come fosse uno di noi, si posiziona frontale agli spettatori e prende parola. Comincia a narrare in prima persona una storia, la vita del personaggio che interpreta, dalla sua età più tenera per finire poi a quella più adulta. A questo punto entrano in gioco i fogli che ci sono stati consegnati e che riportano un numero. Ogni numero fa parte di un elenco di motivi per i quali ha senso vivere. Quando questi numeri vengono citati durante il monologo, ecco che chi possiede quello appena enunciato deve, ad alta voce, leggere quanto riportato sul foglio. Il testo prevede ulteriori personaggi, che vengono scelti in tempo reale dall’attore stesso, che chiede ai prescelti di fare e dire determinate azioni e frasi, come da canovaccio. La continua paura di essere sorteggiati persiste per tutto lo spettacolo, a maggior ragione quando la sua vittima sarebbe stata proprio una giovane ragazza, pressappoco della mia età, essendocene poche in sala oltre a me.
Habitué: Nonostante il tuo terrore di essere coinvolta nella performance direi comunque che è avvenuta quella scomposizione di cui parlavo prima, quella nuova scena che siamo portati non solo a vedere ma a vivere. La stessa cosa è accaduta con lo spettacolo di Riccardo Buscarini, Io vorrei che questo ballo non finisse mai. Qui la decostruzione e l’interazione sono state portate all’ennesima potenza. Ricordo che la sensazione iniziale fu di disorientamento, accompagnata da un piacevole senso di spazio sospeso. Eravamo tutti immersi in una bolla gassosa, le sedute erano completamente sparite dal teatro, il fumo aleggiava disegnando spirali e il palcoscenico era diventato un gigantesco screen dove erano proiettate scene di un altro tempo, anni ’50. I performer si aggiravano tra le persone creando quel senso di fiducia e curiosità. Nel giro di pochi minuti una narrazione inizia a prendere forma, un ricordo o un sogno di una persona incontrata durante un ballo, poco importa, eravamo tutti parte di quella realtà. Il teatro era diventato una balera della memoria, nella quale tutti erano invitati a danzare. Ricordo ancora la sensazione mentre uscivo dal teatro, fu quella di immergermi nuovamente nella realtà, nel flusso temporale di tutti i giorni, lasciandomi alle spalle qualcosa che nonostante il titolo era destinato a finire.
3. L’irruzione delle nuove tecnologie
Entusiasta: Dunque uno spettacolo che mette al centro l’interazione con il pubblico, come buona parte del festival d’altronde. Lo stesso Jacopo Maj ci ha confidato che L’altra Scena è nato con lo scopo di abbattere la quarta parete e di instaurare un nuovo rapporto con il pubblico e che questo rapporto deve essere continuamente costruito e sollecitato. Ecco, io credo che questa edizione del festival pervenga molto a questo obiettivo declinando l’interazione su livelli diversi. Gli spettacoli già presi in esame, Every brilliant thing e Io vorrei che questo ballo non finisse mai, prevedono un coinvolgimento diretto degli spettatori da parte degli attori in scena; quindi, un confronto fisico tra i due mondi che si incontrano sul palco e insieme danno vita alla performance. Questa impostazione, per quanto possa apparire innovativa, potrebbe essere invece ritenuta tradizionale se paragonata ad un’altra proposta del festival: Nel mezzo dell’inferno. Si tratta di uno spettacolo in VR (virtual reality) in cui lo spettatore, munito di visore, cuffie e cintura con sensori, si immerge completamente. L’ambientazione, ricostruita grazie alla grafica digitale, è quella dell’Inferno dantesco di cui vengono rievocati i passi più celebri – Paolo e Francesca, il Conte Ugolino, Ulisse, per citarne alcuni. La scelta di una grafica incisa e disegnata, tutta nero su bianco, e la recitazione, che si limita ad una selezione di terzine originali senza alcuna rielaborazione, danno l’idea di immergersi non tanto negli inferi quanto più nel poema stesso. In questo caso la partecipazione allo spettacolo, pensato per una persona per volta, è obbligata: è così che lo spettatore, catapultato in questa realtà alternativa, diventa attore, anzi protagonista, in scena. È infatti reso chiaro sin da subito che egli assumerà i panni dello stesso Dante. Ci si ritrova a dover interagire e giocare con lo spazio virtuale come se fosse uno spazio reale, esplorandolo ed aggirandone gli ostacoli. Fondamentali risultano, dunque, le indicazioni iniziali e il supporto concreto forniti dagli operatori in sala. Questi ultimi si fanno guide e sostegno, accompagnando lo spettatore/attore durante tutto il percorso e facendo da controparte alla guida eterea di Virgilio. La realtà aumentata è un mezzo che offre infinite possibilità, con il quale il mondo performativo inizia a confrontarsi in questi anni. Il dibattito, dunque, è ancora tutto aperto: ci si interroga sulle ragioni per cui certi spettacoli in VR debbano essere inseriti nella programmazione di un festival. Addirittura, c’è chi sostiene che questo nuovo linguaggio abbia ben poco a che fare con il teatro e non possa essere definito tale. Personalmente, trovo che il virtuale abbia un enorme potenziale e possa diventare un grande strumento per il teatro, senza che questo perda la propria identità, ma ho come l’impressione che la nostra Scettica non sia dello stesso parere…
Scettica: Il teatro è qualcosa che avviene nella realtà, nel qui ed ora; mai come in nessun’altra forma di espressione è fondamentale la compresenza del pubblico e dello spettatore. Questo deve essere astratto dalla realtà vera ed essere trasportato in quella dello spettacolo, che a sua volta deve abitare la scena e creare una dimensione concreta. L’interazione fra pubblico e attore è determinante, e racchiude a pieno ciò che l’esperienza del teatro è in grado di donare. La quarta parete e la presenza di un attore in carne ed ossa sul palco sono aspetti che, proprio in questo festival, vengono spesso messi in discussione, tendono addirittura a non esserci. L’interazione diretta attore-spettatore, e l’utilizzo di dispositivi elettronici come gli schermi, sono gli espedienti preferiti. Da un estremo, come lo spettacolo Nel mezzo dell’Inferno, dove non solo non è prevista la presenza di uno spazio reale, ma nemmeno quella di un attore; all’altro, Cassandra, che pure ricorre spesso all’uso di schermi e tecnologie. Durante lo spettacolo, infatti, si alternano più volte momenti di recitazione tradizionale a giochi di ombre, ricavate da burattini in legno, che impersonano gli attori dandogli voce, e infine schermi, teli bianchi posti fra il pubblico e il palco, quasi a creare una barriera che divide. Immersi nel flusso narrativo si viene totalmente distratti da questi “muri bianchi”, completamente a sé rispetto allo spettacolo. Scorrono sullo schermo fotografie di reportage attuali, di varie manifestazioni contro l’inquinamento ambientale, tema portante, accompagnate da musiche forti e inappropriate. Un espediente, quello di proiettare video, presente anche in un altro spettacolo: Still alive, dove il monologo dell’attrice, molto toccante, viene spezzato, anche in questo caso, da immagini e video, sostitutori di concetti e realtà che sicuramente sarebbero stati meglio espressi dall’attrice stessa.
4. Il teatro delle giovani generazioni
Habitué: Dipende da come questi espedienti vengono impiegati. Per quanto riguarda Still Alive di Caterina Marino, ho trovato lo spettacolo decisamente potente e l’uso di videoproiezioni, audio interviste e la regia in scena azzeccatissimi. Non credo sia necessario che l’attore dica tutto, o meglio, a volte credo che la contemporaneità sia difficile da comunicare, e in questo caso entrano in gioco altre forme comunicative come le videoproiezioni. Lo spettacolo, dal mio punto di vista, ha saputo portare in scena una molteplicità di fenomeni e la loro complessità. Alla domanda: come vedi il tuo futuro? Un vuoto prende lentamente possesso dello spazio scenico. Caterina Marino interpreta quel testimone della sua stessa vita che, disperatamente, cerca di tirare il freno, oppure spingere l’acceleratore, l’importante è opporsi a quella forma di atarassia e immobilità. È la lotta di una odierna hikikomori che, durante la prima parte dello spettacolo, con fare stanco e rassegnato, racconta la sua quotidianità. Successivamente, armata di walkie talkie e schiacciata dal piumone, che fino a pochi minuti prima esibiva come armatura e scudo, cerca un contatto umano. È stato in quel momento che mi sono sentito chiamato a rispondere. Le sue domande, la voce metallica, tutto sembrava un leggero urlo di battaglia attraverso un piumone, udibile soltanto da chi lo emette. Pochi elementi che risultavano nella loro semplicità totalizzanti. Le proiezioni diventano quelle parole che non riusciamo a dire, quel paesaggio schizofrenico che vediamo esplodere e franare davanti ai nostri occhi; la vita davanti alla quale riusciamo soltanto a tenerci la mano (come accade in scena tra Caterina e Lorenzo) e sperare che tutto scorra il più velocemente possibile, un po’ come nella scena finale di Fight Club. Al termine di tutto questo compare una scatola di plexiglass, la stessa scatola che abbiamo trovato nel foyer, prima di entrare in sala, e nella quale eravamo chiamati ad inserire un biglietto con su scritte le cose che ci rendono felici. In scena diviene un oggetto strano, pieno di fumo, nel quale Caterina inserisce la testa, richiamo all’ultimo disperato gesto e grido d’aiuto di Sylvia Plath. La vedo estrarre i biglietti e leggerne il contenuto ad alta voce. In questo caso non c’è nessuno da aspettare, nessun salvatore, è tutto lì dentro alla scatola, dentro alla protagonista. È stato bello assistere a questa discesa nell’oscurità, lo sprofondare in questa materia oscura e veder scoprire dalla performer una piccolissima luce alla quale aggrapparsi, in grado di proiettarla oltre quella immobilità.
Entusiasta: Mi trovo pienamente in accordo con te a proposito di Still Alive. Caterina Marino, nonostante la giovane età, anzi oserei dire proprio grazie a questa, riesce a farsi portavoce di un tema tanto sentito nella nostra generazione con una delicatezza ma al contempo con una forza struggente che le fanno onore. Lo spettacolo, così come Surrealismo capitalista – entrambi Segnalazioni Speciali del premio Scenario 2021 – costituiscono solo un esempio di come i giovani siano i veri protagonisti di questa edizione de L’altra scena. Appurato che il festival non individua come target specifico le nuove generazioni (avendo già il proprio pubblico consolidato con un’età media superiore ai trenta), c’è tuttavia da riconoscergli il merito di lasciare nel cartellone uno spazio tanto vasto ai giovani emergenti. È così che L’altra scena si fa arena di incontro tra due generazioni e due modi tanto lontani di vedere il mondo, a ruoli invertiti: i famigerati boomers, che spesso e volentieri ci si rivolgono con toni accusatori e paternali, si trovano adesso costretti ad ascoltare noi, le nuove leve. Il festival scommette su artisti alle prime armi, come Caterina Marino e i Baladam B-side, e intanto riconferma la presenza di Emanuele Aldrovandi, uno dei più interessanti giovani drammaturghi nel panorama nazionale, il quale, dopo aver portato in scena Farfalle lo scorso anno, propone il suo ultimo lavoro, dal titolo L’estinzione della razza umana. Nello scenario monocromo, ormai marchio d’autore di Aldrovandi, si inserisce una tragicomica rappresentazione della pandemia da cui siamo tutti reduci. A ben vedere, però, la quarantena obbligata dall’epidemia virale è solo il pretesto per aprire riflessioni e provocazioni su altri temi altrettanto caldi, primo tra tutti l’emergenza climatica.
5. Scottarsi con il presente?
Habitué: Contemporaneità, affrontata con rischio, è questo che ho respirato durante il festival. Le serate sono state di volta in volta come un frontale violento con l’adesso. I temi affrontati e il come sono stati trattati; eravamo totalmente esposti. Quanto questo sia corretto o strumentale non saprei dirlo. A parer mio, posso solamente dire che alcuni esiti sono stati più incisivi di altri. Cassandra, produzione del Teatro Gioco Vita, è partito dal mito per svolgere il tema della crisi climatica globale, ma forse è risultato troppo caotico, nonostante la suggestiva performance di ombre. Ritengo sia corretto affrontare i temi della contemporaneità, ma allo stesso tempo ritengo opportuno prendere una distanza temporale da essi, a volte, altrimenti si rischia di voler cavalcare un’onda tematica creando più confusione che informazione. In campo artistico ci stiamo abituando a vedere le tematiche del quotidiano smembrate ed esposte come nuovi animali imbalsamati pronti allo show, e il teatro non fa eccezione. I tempi morti, come in Surrealismo Capitalista del collettivo Baldam B-Side, sono forse quello di cui abbiamo bisogno. Un tempo di silenzio apparente, totalmente denso e carico di quella presenza che ci permette di sviluppare una posizione rispetto a situazioni e tematiche. Quando non sai più cosa dire e non ci sono parole per dirlo, forse è il sintomo di doversi fermare. Ormai siamo troppo abituati a riempire ogni singolo momento con opinioni e punti di vista, è alla scomodità priva di rumore e parole, alla quale non siamo abituati, che ci dovremmo affidare. La mia è un’ipotesi, una suggestione a seguito delle esperienze vissute durante questo festival, ma sono aperto a pareri discordanti…
Scettica: Questa urgenza che si ha di voler parlare del presente che impatta violentemente, risulta essere praticamente ingestibile. È un’urgenza talmente radicata nei nostri giorni che diventa difficile da riportare a parole o espressioni, in quanto ne siamo totalmente assuefatti. Ecco che allora subentrano immagini, video, dispositivi fra i più disparati che attingono i loro scenari direttamente dal panorama reale. Ma questa realtà che irrompe in scena, sostituendo la mediazione dell’attore e la costruzione drammaturgica di cui l’arte teatrale è esperta, è davvero efficace? Il teatro si arricchisce o si impoverisce quando al lavoro di interpretazione e di mimesi preferisce farsi cassa di risonanza dell’attualità? Queste sono le domande sorte in noi, spettatori e cronisti de L’altra scena.
di Laura Cupellaro, Chiara Curotti, Luca Edoardo Moncaleano