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L’adolescenza a teatro: due conversazioni

di Nella Califano, Damiano Pellegrino

I. Una delicata armonia

Nel corso delle tre giornate trascorse a Rovereto per seguire Creature selvagge, abbiamo avuto modo di entrare in contatto diretto con i partecipanti del progetto, studenti e studentesse per lo più di età compresa tra i 14 e i 21 anni, attraverso due lunghe conversazioni circoscritte e dal carattere informale, portate avanti in maniera del tutto libera. Il primo giorno, durante l’intervallo tra una prova e l’altra dello spettacolo, che sarebbe andato in scena di lì a poco, appena 48 ore dopo. E prima di ritornare a Bologna, dopo una replica avvenuta davanti a un centinaio di studenti e studentesse delle scuole del territorio. Un brulichio timido di voci in cerchio ha masticato e messo alla prova le nostre domande, fotografando quale sia il loro personalissimo rapporto con il teatro e quale discorso, invece, sia in grado di portare avanti oggi un lavoro per la scena che mette insieme un’emergenza ambientale, una generazione nata all’inizio degli anni Duemila e un dialogo mancato con il mondo degli adulti. All’interno di questo testo, scritto a quattro mani, troverete anche una traccia sonora da poter ascoltare, che raccoglie in maniera disordinata alcune voci dei protagonisti dello spettacolo. A partire dall’incontro con loro e dopo aver lasciato Rovereto, abbiamo elaborato dei ragionamenti liberi e parziali che vi riproponiamo qui.

Tre nodi, in particolare, sono emersi nel corso della prima discussione e su cui può essere utile ritornare. «Io non vengo quasi mai a Rovereto – ammette una ragazza – . Per partecipare a questo progetto capita ad alcuni di noi di partire alle due e mezza da Trento e ritornare a casa alle nove». Soltanto ventisei chilometri separano la città di Trento da quella di Rovereto e il percorso da fare in treno impiega trenta minuti, ma questo rapporto di vicinanza geografica è solo apparente. Se c’è una difficoltà a spostarsi con l’utilizzo di mezzi pubblici in tutta comodità, laddove tale difficoltà aumenta per adolescenti che abitano in valli o località montane del tutto isolate, nel corso dei tre giorni, anche a seconda delle tante parole che ascoltiamo, ci pare di capire che un centro privilegiato per questa fascia d’età, anche da un punto di vista dei suoi consumi culturali, sia senz’altro Trento a discapito della vicinissima Rovereto. Un progetto di arti performative di questo tipo, allora, alla pari di un altro precedente, portato avanti da Oriente Occidente e dal perfomer Daniele Ninarello a contatto con tre istituti scolastici di Trento, non fanno altro che rimettere in discussione la relazione tra queste due città. Attività queste, capaci di agglutinare questi due centri così vicini, creando ponti immaginari e rimettendo in discussione e al centro la presenza, o meglio la circolazione, di giovanissimi lungo il percorso che da Trento porta a Rovereto e viceversa.

«Per papà e mamma mi sento sempre un pacco o un ombrello», è la frase di un bambino che Roberto Denti riporta in uno dei contributi, dal titolo Diventiamo conosciuti inserito all’interno di una raccolta di testi incentrata sul rapporto tra la lettura, il mestiere di libraio e la dipendenza dalla famiglia e dalla scuola. A questa frase, così estrema, possiamo ricondurre altrettante parole ricorrenti rintracciate in tante voci durante la discussione con i partecipanti, nel momento in cui loro stessi ammettono che una possibile strada per avvicinarsi al teatro, per farlo o per assistere a uno spettacolo, possa venire fuori soltanto da un desiderio incandescente del singolo. «Ho conosciuto dei genitori che dicevano al proprio figlio: vai a fare teatro. In realtà questo è il modo sbagliato perché la spinta deve provenire dalla persona stessa». Se da una parte quasi tutte le voci durante la conversazione attribuiscono un grande riconoscimento alla figura degli adulti, capaci di indicargli delle possibilità inedite fino a quel momento – è il caso di una delle ragazze che è entrata a conoscenza di questo progetto grazie alla notizia reperita dalla madre insegnante – dall’altra le stesse voci accusano un atteggiamento da parte dei genitori frettoloso e per nulla capace di mettere in discussione o vagliare delle scelte, che probabilmente hanno bisogno di un tempo di gestazione molto lungo e di un dialogo complesso e dai confini poco netti.

Nell’ultima parte della discussione abbiamo considerato a grandi linee il rapporto che ciascuno di loro ha con il teatro in qualità di spettatore. C’è uno spettacolo che vi ha fulminato o colpito nella vostra esperienza di spettatori? Ci sono delle programmazioni teatrali che vi interessano o che seguite nei luoghi dove abitate? E con chi vi capita di andare a teatro? Se le risposte da una parte appaiono confuse o precipitose dall’altra ci colpisce una consapevolezza che quasi la maggior parte di loro possiede: il teatro oggi non è in grado di presentarsi a una comunità più giovane, presentare e raccontare all’esterno la diversità dei linguaggi che appartengono alla scena. Come dire, allora, che operatori e addetti ai lavori nel territorio di loro competenza non riescono, non soltanto a dare notizia, ma a raccontare a una fascia ristretta di persone, quella più giovane, che il teatro e una stagione annuale siano abitati da differenti estetiche e forme, da appuntamenti diversi. Se questa varietà di linguaggi della scena fosse trasmessa come si deve – attraverso momenti informali nelle scuole, presentazioni aperte, incontri con le compagnie prima degli spettacoli – gli adolescenti, allora, potrebbero coltivare un briciolo di curiosità nei confronti di un determinato spettacolo. Una poco conoscenza di ciò che contraddistingue i linguaggi della scena contemporanea – secondo una delle ragazze – è dettata anche da questo fatto allora. «Se si sapesse un po’ di più che esistono delle differenze nei lavori per la scena, quando vado a vedere uno spettacolo inseguirei un’idea di teatro che mi affascina e non mi respinge».

Damiano Pellegrino

II. Verranno a chiederci della vostra adolescenza 

Alla fine della prima di due repliche di Creature Selvagge gli applausi e le urla degli adolescenti sono incontenibili, ma anche durante la messinscena non sono mancate le manifestazioni di approvazione. Ragazzi e ragazze di diverse scuole sono stati spettatori e spettatrici dei loro coetanei e delle loro coetanee che hanno accettato la sfida di partecipare a un laboratorio che è poi diventato uno spettacolo. Creature Selvagge sembra essere piaciuto molto agli spettatori e alle spettatrici e quindi c’è grande curiosità, le domande fioccano: avevate mai recitato prima? Come vi sentite adesso? Avete scelto voi i vostri personaggi? E i musicisti sul palco? Gli attori e le attrici rispondono sempre con grande consapevolezza e parlano soprattutto del processo, di quanto sia stato bello scoprire qualcosa di nuovo, conoscere persone che altrimenti non avrebbero mai incontrato, lasciarsi coinvolgere al punto di ritrovarsi a fare cose che mai avrebbero pensato (come i musicisti, che hanno accetto di suonare dal vivo sul palco a patto di non recitare e che poi sono diventati a loro volta attori), superare la timidezza, prendersi la responsabilità di far funzionare insieme una macchina complessa, sacrificare il loro tempo per un progetto comune. Sono cresciuti, si sentono fieri, soddisfatti. Si definiscono un gruppo di amici e amiche ormai, un gruppo forte, sperano di non perdersi. Mentre rispondono alle domande del pubblico si guardano tra loro, si passano il microfono con sguardi d’intesa e sorrisi complici. Si percepisce il desiderio di spettatori e spettatrici di sapere come sia potuto accadere in così poco tempo tutto questo. E loro, i protagonisti di questa storia, dall’alto della loro esperienza, consigliano a tutti di fare teatro, ma non di andare a teatro. Non lo sconsigliano neppure, semplicemente non parlano del teatro come esperienza vissuta da spettatori. Il teatro in fondo non piace neppure a loro, li annoia (alcuni ce lo hanno confessato) ma fare teatro è un’altra cosa. Per questo quando un’insegnante, dopo essersi lungamente complimentata per il lavoro, chiede se secondo loro non si debba inserire il teatro tra le materie curricolari rispondono subito che, innanzitutto, affinché uno spettacolo «venga bene» non deve esserci una «costrizione», ma è necessario sempre partire dalla «forte volontà di realizzarlo» da parte di ognuno; poi tendono a precisare che a loro non interessa lo spettacolo in sé, ma come si arriva allo spettacolo, il processo, appunto. Non sono attratti dall’idea di salire sul palco, sentono piuttosto il bisogno di altri stimoli: imparare a comunicare, instaurare un dialogo tra loro e i docenti, parlare di sé, stare insieme. Ecco, così si, così si può pensare a un teatro che entri nelle scuole. Tutti noi adulti in sala siamo rimasti palesemente basiti da questa risposta. Come mai? Forse perché non ci avevamo mai pensato? Perché abbiamo visto crollare miseramente davanti ai nostri occhi uno dei pilastri fondamentali dell’educazione tradizionale secondo cui sappiamo sempre “noi” cosa sia giusto per “loro” tanto che spesso non ci preoccupiamo neppure di interpellarli? O perché dopo una risposta così chiara e lucida ci siamo finalmente chiesti: ma li conosciamo davvero questi adolescenti? Diamo loro abbastanza spazio? Anche solo per raccontare con le loro parole ai loro coetanei un’esperienza come questa, evitando di mediarla con le nostre parole, spesso sbagliate perché appartengono a un vocabolario che non li rappresenta. Insomma chi sono queste creature selvagge che urlano dal palco a noi adulti le loro difficoltà? «Siete stati anche voi creature selvagge, ve lo ricordate?». Parlano proprio a noi, che li trattiamo come adulti o come bambini a seconda delle nostre necessità. A noi che non li ascoltiamo abbastanza, o che non li capiamo. A noi che abbiamo lasciato un mondo tutto da rifare e carichiamo loro della responsabilità del futuro. E no, non sono luoghi comuni, abbiamo parlato con loro e si sentono proprio così: in preda all’ansia di non riuscire a vivere quella che viene universalmente considerata “l’età più bella”; invisibili, intimoriti dalla possibilità di sbagliare in un mondo di fenomeni; spiazzati dalla velocità dei nostri tempi, tanto da non capire più dove inizia e dove finisce l’adolescenza, la loro adolescenza; spaventati dal futuro e impotenti di fronte alla devastazione che non hanno certo voluto loro. Sono creature selvagge, in via di estinzione e non perché stanno sparendo, ricorda il più grande del gruppo, ma perché «non si fanno vedere abbastanza», «si rintanano nei loro covi» attuando un processo di «autodistruzione» che consiste nell’osservare la vita degli altri (che sui social network sembra sempre più bella e piena e felice) fino a smettere di vivere la propria. E anche perché il mondo sembra così grande e traboccante di ingiustizie che credono di «non arrivare mai a fare la differenza». Uno spiraglio si apre però, perché si dicono che forse con questo spettacolo la differenza l’hanno fatta, perché si parte sempre dai piccoli gesti.
Torniamo allora a Creature Selvagge, al loro piccolo tentativo di uscire da quei covi di cui parlavano e di urlare finalmente qualcosa al mondo. Nel corso delle nostre conversazioni è tornato più volte il concetto per cui fare teatro sia per loro molto più importante che vederlo, ma non per partito preso, qualcuno ci è anche andato a teatro, ma non ne è uscito entusiasta, ci vorrebbe un teatro «in evoluzione come noi», dicono, capace «di fare gli stessi passi degli adolescenti». Una metafora molto chiara. Sarebbe però un peccato rinunciare a essere anche spettatore, ricorda qualcun altro, perché il teatro, a differenza del cinema, «ti costringe a immaginare quello che non c’è, uno sforzo che non tutti vogliono fare» e coinvolge dall’inizio alla fine lo spettatore: «a teatro ci sono anche io». Sono tutti d’accordo anche sul fatto che il teatro, proprio come è accaduto per Creature selvagge, sia capace di affrontare con leggerezza tematiche difficili come il cambiamento climatico, del quale a scuola si parla continuamente e con grande drammaticità. Da questa narrazione che non lascia speranza si sentono travolti e stravolti, appesantiti, impotenti. Nascono anche in questo modo le paure, le ansie, le depressioni e tutte le altre conseguenze di una sorta di “mal di vivere”, che deriva più in generale dall’inadeguatezza nei confronti di una società frenetica, che non può attendere. Come potrebbe farlo una società del consumo? Significherebbe andare contro la propria spietata natura. Ma alla fine della corsa, se ci guardiamo indietro, troviamo loro, le creature selvagge, spaesate, devastate, troppo piccole o troppo grandi, sole e in più con tante dita puntate contro, quelle di chi non ha saputo prendersi nei loro confronti la responsabilità educativa, anche loro troppo di fretta per potersene occupare. 

E a quel punto, cari ragazzi, care ragazze, cosa diremo quando verranno a chiederci della vostra adolescenza?
Abbiamo cercato risposte da loro: che significa essere adolescenti e quando finisce questo periodo della vita? Sembrano quasi tutti d’accordo nel dirci che «non dovrebbe finire mai» perché è «energia e conflitto», è «un modo di vivere le cose», è «cambiamento e sperimentazione». Loro si sentono così, hanno «fame di vita» e non a caso, quando lo hanno urlato durante lo spettacolo gli spettatori loro coetanei hanno urlato forte insieme a loro. 

Creature Selvagge è stato tutto questo, ha aperto numerosi confronti e riflessioni sull’adolescenza e sulla società in generale. È successo a Rovereto, è successo all’interno di un gruppo specifico di ragazzi e ragazze e quindi il progetto non si pone l’obiettivo di raccontare l’adolescenza oggi, ma siamo certamente di fronte se non all’intera storia, almeno a un pezzo di essa. E questo frammento ci racconta di un’emergenza, una richiesta d’aiuto che non può essere più ignorata. Il teatro, in questi mesi, ha fatto la sua parte. E poi? Non è un caso se lo spettacolo finisce, ma non si chiude. «E quindi? Finisce così? No, questo è solo l’inizio». 

Nella Califano

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